Ottimismo guaritore

Ottimismo guaritore
L’ottimismo cristiano viene alimentato dall’orizzonte della risurrezione, e perciò può sempre dire, per sé per la Chiesa per il mondo: “Alla fine tutto andrà bene!”.
Allora le sofferenze sono sempre considerate non catastrofi, ma opportunità. Opportunità per riattizzare sempre la speranza, principalmente quella che si appoggia alla preghiera. La preghiera non tanto come ricordo, ma soprattutto come prospettiva.
La preghiera, quella cristiana che si inizia con il “Padre”, preghiera di sicurezza nella fiducia, non invocazione nella lontananza: non “esilio” nel corpo, ma piuttosto presenza in famiglia: non urlo a un Signore, ma confidenza con un Padre.
L’ottimismo cristiano dona solidità, però bandisce ogni faciloneria. Essere ottimisti è una cosa seria, perché si basa sulla fede nel Padre e nel Cristo Redentore. Non è sorriso sarcastico sulle miserie umane, ma è assunzione serena di tali miserie, per trovare nella speranza che viene dalla certezza di essere con il Padre, il riferimento impegnativo del nostro esistere.
L’ottimismo cristiano non è risata: esso è sorriso; non scoppio momentaneo, ma distensione serena continua. L’ottimismo è uno stato, non un episodio di divertimento. Non si nutre di spettacoli, ma si interiora nella contemplazione.
Resta sempre chiaro che, senza Gesù, non esisterebbero né sorriso, né ottimismo cristiani. In lui ogni giorno rivolgiamo il nostro occhio, scrutando il Vangelo, in lui rivolgiamo il nostro cuore lasciandolo entrare in noi e invaderci con l’Eucarestia. Solo Gesù, solo da Gesù, solo in Gesù.
27.11.16

Mistica diffusa

Mistica diffusa
Alcune esperienze sembra esulino dal pensiero e dalle idee. Questo può accadere a causa di droghe. Ricordo ancora un esperimento, condotto negli Stati Uniti d’America, quando durante un’intensa giornata liturgica (Giovedì Santo) in un seminario protestante furono somministrate delle droghe per “scoprire” l’effetto mistico. Evidentemente non è che io voglia parlare di questo.
Ci sono esperienze così penetranti nell’accostarsi a Dio, che la persona si trova immersa in un’atmosfera particolarmente luminosa e travolgente, da “estasiare”. Si tratta di esperienza che usa definire mistica.
Nel mio piccolo scorribanda scientifico dentro la fenomenologia delle religioni, mi pare d’aver costatato come tale esperienza particolare si può rilevare in molte religioni. Cito solo alcuni nomi: Teresa d’Avila, Angela da Foligno, Rabija.
Questa consonanza di esperienze, può essere descritta dalle interessate in modi diversi, secondo l’ambiente culturale delle singole persone, ma, a osservare attentamente, la sostanza è affine.
L’esperienza mistica (comunque la si nomini) è una possibilità e una dotazione della semplice persona umana, un’esigenza della psiche. Eppure non è soltanto un semplice portato umano, scisso dalla radice creata della persona. Se è radice creata, è frutto del Creatore, o, se così torna meglio, dello Spirito Creatore. Sotto questa luce, si può anche dire che è una misteriosa, perciò reale, dotazione dentro ogni uomo, che ogni uomo prima o poi può sperimentare.
18.05.17

Santità incipiente

Santità incipiente
Gesù non parla soltanto ai cristiani. Anzi ha sempre parlato a “non battezzati”. E anche oggi stimola noi, per quella parte di noi, che deve essere ancora battezzata, o che ha perso il profumo del Vangelo. Sì, il cristiano è un peccatore pentito, un battezzato incompleto, che deve ancora adattarsi a Gesù, perché lo Spirito cristianizzi quella parte di noi, non ancora purificata dal battesimo o dalla penitenza.
La nostra santità è autentica, perché è dono di Dio, ma attende la completezza, perché crediamo a Gesù, ma scopriremo ciò che lui ci fa essere solo quando lo vedremo così come egli è. Se il presente è fonte della gioia nello sperare, esso non è gioia totale in Dio. Non può essere ancora gioia totale in Dio, perché ancora viviamo nel corpo, vanto e prigione del nostro esistere nella speranza. Eppure se lo sperare è già tanto irrorato di gioia gloriosa, quale sarà la beata gioia, quando la risurrezione trasformerà questo corpo mortale nel corpo spirituale?
Il giorno del ricordo dei morti è stato bruttato da pesanti gramaglie, buttate anche sulla faccia redenta della chiesa di Gesù. Invece questo giorno è un anticipo del nostro futuro di gioia e di gloria, pensando ai nostri cari già entrati nella gioia definitiva. È un giorno di ringraziamento per loro, sebbene peniamo per la loro mancanza. Peniamo noi, ma non loro, che hanno superato le croci della vita, di questa parte di nostra vita, vissuta ancora nella carne.
Chi crede in me, ci assicura Gesù, io lo risusciterò nell’ultimo giorno: quale è l’ultimo giorno? Certamente non quello segnato dal calendario. Quello che segna la nostra completezza in Gesù, completezza che nelle mani solo di Dio.
02.11.15

Oltre il mio confine

Oltre il mio confine
Ieri sera mi hanno ricordato due vie per l’incontro uomo-Dio, all’interno di una conversazione. Da una parte ho ricordato lo sfondamento del tetto di Bissonier, da un’altra lo scavo al limite del profondo di Mate Blanco. Evidentemente qui emergono i limiti dell’uomo, sia guardando verso l’alto, sia sprofondandoci al limite della persona.
Ricordare Sant’Agostino riesce naturale, quando egli parla di Dio, che è “superior summo meo, inferior intimo meo”. Oltre la mia altezza, oltre il mio profondo.
Noi siamo limitati, finiti, ossia rinchiusi da “confini”. Oltre il nostro confine, c’è necessariamente dell’altro. I confini separano, definiscono, e perciò necessariamente, non includono l’altro da noi, l’altro che non riusciamo a “definire”, ossia ad attribuirgli una faccia precisa.
Lacan diceva appunto che la persona è delimitata, grazie all’esistenza dell’altro. L’altro singolo, diverso da me. L’altro sociale, con il quale sono in relazione, l’altro esistenziale che c’è, ma che non è passibile di definizione, ossia l’Altro che si confonde con l’essere aperto, totale, indefinito.
Nella Genesi, quest’Altro non si lascia definire, perché non è definibile, proprio perché, con un nostro povero linguaggio, è infinito, con l’”in” negativo. Di fatto Dio, in quell’occasione, di dice soltanto esistente: sono soltanto e totalmente essere, esistenza illimitata, non circoscrivibile.
Noi ci confiniamo o ci definiamo dentro il globo totale dell’esistenza, lui non si definisce, non “può” definirsi.
17.05.17

Ombre e luci

Ombre e luci
Oggi il linguaggio liturgico, come si potrebbe individuare?
1°. Linguaggio avulso dal quotidiano. Gesti, parole, vesti sembrano talmente lontani dal modo comune di parlare e di agire, da creare un’atmosfera strana. Forse questo può servire a un senso dell’arcano, dell’altro, dell’oasi di spiritualità, ma rischia di non mordere sulla sensibilità corrente.
2°. Un linguaggio stilizzato, e forse ingessato. La prevalenza delle indicazioni particolareggia sui movimenti, di modo che il presidente, forse oggi meno del periodo preconciliare, è costretto a gesti che lo legano. Questo è probabilmente in vista della validità sacramentale, secondo certe correnti filosofico-teologiche, attente a non commettere svarioni per non impedire la presenza di Cristo tra i fedeli.
3°. Linguaggio simbolico necessario, perché Dio si rivela attraverso parabole e simboli, tuttavia molti simboli non sono per nulla intuibili. Troppo spesso i liturgisti devono spiegare il simbolo, talvolta legato a culture e a mentalità del passato. Di modo che il simbolo non introduce nella cosa, ma desta la domanda: “Perché, come questa azione o questa parola?”
Per dono di Dio, le non rare astruserie non impediscono la fede e il colloquio con Dio. Però dove sta l’Eucarestia, festa e ringraziamento? Beati i bambini che in chiesa piangono o scorrazzano, lodando Dio con la spontaneità.
Noi, pur di usufruire della grazia, ci sottomettiamo ai riti, sebbene non sempre li sentiamo davvero nostri.
28.09.16

Rinneghi!

Rinneghi!
Il Vangelo oggi mi ripropone il “Rinneghi se stesso”. È un’indicazione all’annientamento? Al buttar via tutto quanto mi è stato donato, dalla sublime capacità di vedere, a quella di camminare, di amare, di apprendere? Insomma siamo nella condizione di Abramo, al quale Dio ha donato un figlio, e lo stesso Dio ordina di eliminarlo in un sacrificio?
Il “rinneghi se stesso!” non è un gioco sarcastico del Dio, che dona e annienta. È la bontà di Dio, che ci indica come vivere e potenziare il suo dono. È l’indicazione a non pretendere che i suoi doni (vita, amore, intelligenza, fede, Gesù, Chiesa) siano dovuti a noi, come a “uomini fattisi da soli”. È il dirci di non pretendere di essere i padroni delle cose sue. Noi siamo suoi, suo popolo, e gregge del suo ovile. Lo dice a Pietro: “Pascola le mie pecore”.
Il “rinneghi se stesso”, non è uno scartare i doni di Dio, ma il viverli correttamente per sentirne tutta la loro bellezza e la loro efficacia.
Dono di Dio è anche la scienza. Sociologia, tecnica, filosofia, sono creazione dell’uomo, a sua volta creato. Dio stende la sua misericordia, anche sulla scienza e sulla sociologia, affinché non deraglino dalla via voluta da Dio. E, nel nostro tempo, quando le scienze compiono passi enormi, la misericordia di Dio le deve indirizzare affinché non compiano passi enormi fuori strada. Anche lo scienziato e il sociologo devono “rinnegare se stessi” con il non pretendere di fare della scienza un idolo, che si oppone a Dio.
Il rinnegare noi stessi, le nostre insane pretese, fa parte di quel “perdersi per guadagnarsi”.
11.02.16

Risurrezione, carta vincente

Risurrezione, carta vincente
La nostra carta vincente, è la nostra fede nella Risurrezione di Gesù. La nostra carta vincente è Gesù Risorto. Il nostro Gesù Risorto. Il Gesù, cui abbiamo affidato la nostra esistenza, e che noi semplicemente sappiamo che è Risorto.
Il Gesù Risorto è costatazione ed è mistero. Egli si presenta e alla nostra costatazione e alla nostra fede. È la continua esperienza, in noi e in tutta la Chiesa, che felicemente crede, del fatto espresso dal Vangelo: lo toccarono, mangiò con loro, lo videro, parlarono con lui: è costatazione storica, analoga alla presenza di Cesare, di Ciro, di Alessandro Magno. Parliamo, leggiamo e scriviamo di loro, senza dubitare.
Però dentro quella costatazione storica, lo Spirito ci conduce a leggere il mistero, l’opera di Dio, l’impossibile diventato e possibile e reale.
Di fronte a tutti i dubbi degli scettici, e dei resti del nostro personale scetticismo, noi giochiamo la certezza della carta di Gesù Risorto.
Lo scetticismo è frutto di incertezza, e l’incertezza germoglia dalla paura, soprattutto di quella paura radicale, che è l’angoscia esistenziale.
La fede è il potente antidoto proprio opposto all’angoscia esistenziale. Questa si sposa all’allontanamento da Dio, quella è pervasa dalla vicinanza intima di Dio, che usa chiamare con il nome di Spirito Santo. È questo Spirito che ci assicura come la nostra carta vincente è Gesù Risorto.
Per assicurarci “sulla vita”, non bastano promesse, medicine, esercizi ginnici e fitness; l’assicurazione sulla vita è solo la nostra risurrezione, prolungamento della Risurrezione di Gesù.
07.05.17

Sfuggire a Gesù, al Padre

Sfuggire a Gesù, al Padre
Il Signore deve venire presto in mio aiuto: così recitano le preghiere “ufficiali” della chiesa cattolica.
Uno degli aiuti urgenti per il nostro vivere da cristiani, è proprio quello di salvarci dal nostro “sfuggire Gesù”. La tentazione è forte. Perfino quando entriamo nel pregare, siamo sollecitati a sfuggire a Dio. Che cosa sono le nostre “distrazioni” se non appartarci da Dio? Pur senza estremizzare le nostre debolezze distrazionali, c’è un fondo di verità nel nostro, nel mio sfuggire a Gesù.
Abbiamo bisogno quotidianamente di un rinnovo dell’azione dello Spirito Santo per non farci uscire da Gesù. Spesso è la nostra sensibilità ferita, che ci fa ripiegare sulle nostre ferite emotive, per spingerci a dimenticare la nostra continua unione con Dio.
Questa dimenticanza può essere evitata dalla preghiera, e, in modo incisivo, dal nostro accorgerci della nostra ostilità verso coloro che non ci stimano o che si divertono a ostacolarci.
L’aiuto del Padre lo invochiamo per noi e per coloro che si dilettano davanti alle sofferenze degli altri, e, se possono, affondano più dolorosamente il coltello nelle ferite aperte.
Gesù, il nostro Gesù, quando si imbatteva in persone sofferenti non si schierava dalla parte del “Ben ti sta: soffri!”. Lui si immetteva nella sofferenza degli altri, la percepiva subito, come fu vicino a Naim vedendo una donna sofferente, e si dava da fare per alleviare le sofferenze. Gesù non era uno stoico, ma un uomo. Non sfoderava un sorriso sardonico, ma piangeva sulla tomba dell’amico Lazzaro. Sfuggire da Gesù è anche non accompagnare i suoi sentimenti.
11.10.16

Quale comunità

Quale comunità?
Anche le comunità religiose e i conventi stanno risentendo la crisi odierna. Di solito queste piccole realtà non agiscono nel campo finanziario. Ed è un vero bene, perché non si trovano colpevoli del precipitare del benessere di nazioni e di classi sociali, verso la povertà e, non raramente, verso la miseria.
Anche i conventi devono tappare le falle di una economia, che cala e produce miseria. Quindi anche essi sono costretti a risistemare la propria economia, per quanto limitata e, all’apparenza, poco significativa.
Devono, quindi, riprendersi. Domanda: per diventare comunità imborghesite oppure conventi dove la povertà non sia soltanto celebrata come bandiera, ma vissuta come carne viva?
Il benessere borghese si può infiltrare nei conventi, e, quando ci sono, nelle attigue loro chiese.
C’è del superfluo nei conventi, quel superfluo che si gloria di apparenza? È povero ciò che riguarda la comunità. P. Kolbe creò una grande comunità povera, mentre fornì di mezzi anche costosi l’attività apostolica della parola. Or dunque di oggetti superflui spesso vediamo certe piccole o grandi manifestazioni. Cibo, ornamento personale o nei locali, vesti inutili, paramenti lussuosi nelle chiese, ecc. non sono conformi a povertà. I più fortunati, tra i frati, sono quelli che provengono da famiglie povere, nelle quali il mensile del capofamiglia era sufficiente per nutrire sei, sette, otto membri. Sono sfortunati quelli che adornano i loro ambienti, le loro vesti anche liturgiche con aggiunte borghesi.
Allora: i francescani devono costruire una comunità borghese, o una comunità povera?
02.05.15

Prospettive altre

Prospettive altre
Le prospettive devianti su Gesù, sono quelle che non sono originate da lui, ma da altre esigenze, che pretendono di sottoporre Gesù a schemi mentali che non dipendono da lui, ma sono generate da altre esigenze mentali, filosofiche o anche semplicemente comportamentali.
Questa tendenza la troviamo anche nella scolastica, quando l’aristotelismo lo si vuole “battezzare”. Alcune tendenze filosofiche cercarono la consonanza con il cristianesimo (tomismo, bonaventurismo, scotismo). Altre generarono le eresie medioevali.
La pletora di pretese di vedere Gesù sotto schemi di pensiero deviante, venne quando il razionalismo e il positivismo si imposero come unico modo di considerare la realtà. Siccome Gesù faceva parte della storia umana, non potendo dimenticarlo, lo piegarono ad altre esigenze. Sotto questo aspetto ricordiamo la “Vita di Cristo” del Renan.
Più vicini a noi, quando il marxismo dilagò come unico modo di considerare l’esistenza, grazie anche all’imperversare del comunismo, ecco l’interpretazione del Vangelo in chiave marxista.
Intanto gli esegeti della Scrittura, per non tradire le scoperte recenti e per non tradire il Vangelo, affrontarono la Scrittura con il metodo storico-critico. Questo percorse una via scabrosa, e tuttavia scoprì elementi molto utili a un ritorno al Cristo autentico.
Evidentemente Gesù sfugge ai nostri schemi, però non disdegna i nostri sforzi.
26.06.16