Il silenzio amoroso

Il silenzio amoroso
È bene essere pronti nel silenzio ad attendere la salvezza di Dio (Bibbia). Il cuore parla molto, quando la lingua tace. La lingua esprime la sofferenza, il cuore la vive. Colui che scruta i cuori, conosce il nostro affanno, come conosce la verità della nostra gioia.
Perciò Gesù ci invita a pregare in camera nostra dopo aver chiuso la porta. Quindi è bene portare in casa la preghiera iniziata in chiesa. Rendere continua l’Eucarestia quotidiana, inserendola nelle pieghe della quotidianità, spalmandola lungo le nostre ore.
Il silenzio anche nell’esprimere le nostre sofferenze. Silenzio non per non vederle, ma per guardarle alla luce di Dio, ossia di nostro Padre. Quello che appiana i nostri debiti, soprattutto quelli dovuti alla nostra cattiveria, esplicita o sottintesa.
Certamente nel silenzio si elabora il dolore. I tre amici venuti a consolare il povero Giobbe, parlando aumentavano la sua pena. L’elaborazione silenziosa del dolore, spinge a trovare soluzioni di conforto, che i consolatori non possono offrire. Infatti i motivi di consolazione vera stanno nel nostro cuore, dove lo Spirito agisce. Anche le parole più dolci che ci arrivano dall’esterno non individuano né i motivi, e nemmeno il tempo, del nostro essere confortati.
Il silenzio è medicina da offrire a chi soffre. Un silenzio amoroso e tranquillo, non dettato dall’ansia del “non saper che cosa fare”, ma dal bisogno di rispettare la sofferenza dell’altro e di “adorarla” in Gesù, sofferente in chi soffre.
Un silenzio che sa attendere la salvezza.
12.06.17

Sconfitti sì, ma con Gesù

Sconfitti sì, ma con Gesù
Il mondo è dei furbi e dei violenti. La povera gente è sempre sottomessa e sconfitta. Però solo gli sconfitti sono dalla parte di Dio, vittorioso in sé, umile cordialmente verso gli sconfitti.
Però proprio gli umiliati attirano lo sguardo di Dio. Guardò l’umiltà della sua serva: dice Maria.
Forse lo sconfitto, in seconda battuta, trova la bellezza di essere sconfitto, perché nella vita e nelle case del cristiano è presente sempre un Crocifisso. La “gloria” di noi sconfitti, è la gloria di Gesù, il quale per la sua umiliazione acquistò un nome che è al di sopra di ogni nome. Accettare la sconfitta ci introduce nella pace. E tale introduzione è quotidiana.
Paolo scrive delle proprie sconfitte come sicuro motivo di appartenere a Gesù.
Non si tratta di essere superiore alle sconfitte per andare avanti per una via gloriosa, come i soldati romani, che si vantavano presso il popolo per le ferite riportate in combattimento, perché questo testimoniava l’eroicità del combattente. Invece Paolo vede la realtà sotto una prospettiva di appartenenza: “Porto nel mio corpo le stimmate”, quelle del Signore. Non eroe, ma appartenente a Cristo. Dio sta alla parte delle sconfitte, perché non può staccarsi da suo Figlio. Non ripudia il Figlio incapace di vincere, ma cambia la stessa sconfitta nella vittoria dell’amore.
Se la sconfitta e l’umiliazione avvengono in Gesù, esse rendono raggianti. Cercare dunque la sconfitta, come si narra dei santi che si umiliavano con flagellazioni? No: semplicemente accettare la sconfitta, vivendola in Gesù, e offrendola al Padre, domandando quel conforto nella sofferenza che il Padre non nega a nessuno.
17.10.17

Festa eucaristica

Festa eucaristica
Leggo anche in noti manuali liturgici cristiani, che la Messa, ossia l’Eucarestia, è il culto cristiano. Mi lascia molto perplesso questa “riduzione” della messa al solo aspetto del culto. La Messa può diventare culto, ma essa va ben oltre.
Il culto è “l’onore” che l’uomo riconosce e tributa a un personaggio, ma anche a cose e azioni. Il culto dei santi, ma anche il culto della bellezza o dello sport. Il culto è, come del resto la nuda religione, un movimento dell’uomo verso una persona, o verso un valore. La messa è ben altro.
Io sono solito a indicare l’andare alla messa domenicale, non con l’obbligo a un precetto umano, per quanto ecclesiastico, ma come un “bisogno” del Dio misericordioso di donarsi ai suoi figli. Dico, in soldoni: Il Padre ti invita, perché vuol parlarti e donarti ciò che più bello può esistere, cioè il suo figlio. Consapevoli di un invito generoso di bontà, noi andiamo a questo invito con riconoscenza. La riconoscenza intenerisce, ringrazia e ama.
La messa è un incontro d’amore. Dio ama e dona, l’uomo ama e ringrazia. Allora il rito riveste importanza relativa, confrontato solo con l’ambientazione. La riconoscenza al dono di Dio, aveva suggerito agli antichi di indicare la messa come eucarestia, ossia bel ringraziamento per un dono, per una grazia (charis).
Per il credente quindi, l’Eucarestia è festa per il dono. Il giorno del Signore (domenica) è il giorno del suo dono, e della festa del ringraziamento. Festa di ringraziamento che i più sensibili vivono nella messa quotidiana, che, prima di essere aiuto al lavoro quotidiano, è bisogno di contatto gioioso.
03.11.17

L’infelicità dell’ateismo
L’ateismo è semplice stanchezza della mente, che dichiara forfait. Le scuse che si adducono per fondare un ateismo scientifico si sbriciolano facilmente e tristemente. La scienza si ferma alle cose visibili e sperimentabili. E qui cade su se stessa, se pretende di applicare i suoi criteri per affermare o per negare l’invisibile.
Le altezze di Dio si ripetono solamente balbettando. L’ateo (se esiste) smette non solo di parlare, ma anche di balbettare: ricade nell’insignificante, proprio perché, quando parla di Dio (quel Dio che lui pretende di negare) egli, per definizione da lui intesa, parla del nulla, del quale niente egli può affermare, neppure circa la sua inesistenza. L’ateo onesto, se esiste, non può neppure affermare il proprio ateismo.
Il credente, è più facile che parli a Dio, che non di Dio. Il credente dà per scontato che Dio esiste, e ciò non perché lui l’ha scoperto, perché semplicemente “così è” e così il profeta e Gesù l’hanno vissuto e l’hanno affermato.
La fede prima la si vive, poi la si afferma, o – addirittura – si pretende di dimostrala. Quando al bambino si parla di Dio, lui lo percepisce immediatamente. Il suo “perché?” non richiede dimostrazioni, ma affermazioni.
Quando Gesù indica al credente di progredire nella fede fino a diventare bambini, semplicemente egli legge la realtà. Il detto, del resto anche sapienziale, “credo per capire e capisco per credere” vale molto per la nostra povera mente. È più esatto un “credo per credere”.
06.11.17

L’infelicità dell’ateismo

L’infelicità dell’ateismo
L’ateismo è semplice stanchezza della mente, che dichiara forfait. Le scuse che si adducono per fondare un ateismo scientifico si sbriciolano facilmente e tristemente. La scienza si ferma alle cose visibili e sperimentabili. E qui cade su se stessa, se pretende di applicare i suoi criteri per affermare o per negare l’invisibile.
Le altezze di Dio si ripetono solamente balbettando. L’ateo (se esiste) smette non solo di parlare, ma anche di balbettare: ricade nell’insignificante, proprio perché, quando parla di Dio (quel Dio che lui pretende di negare) egli, per definizione da lui intesa, parla del nulla, del quale niente egli può affermare, neppure circa la sua inesistenza. L’ateo onesto, se esiste, non può neppure affermare il proprio ateismo.
Il credente, è più facile che parli a Dio, che non di Dio. Il credente dà per scontato che Dio esiste, e ciò non perché lui l’ha scoperto, perché semplicemente “così è” e così il profeta e Gesù l’hanno vissuto e l’hanno affermato.
La fede prima la si vive, poi la si afferma, o – addirittura – si pretende di dimostrala. Quando al bambino si parla di Dio, lui lo percepisce immediatamente. Il suo “perché?” non richiede dimostrazioni, ma affermazioni.
Quando Gesù indica al credente di progredire nella fede fino a diventare bambini, semplicemente egli legge la realtà. Il detto, del resto anche sapienziale, “credo per capire e capisco per credere” vale molto per la nostra povera mente. È più esatto un “credo per credere”.
06.11.17

Quel libro

Quel libro
Il mondo è ricco di pensiero. Ogni persona ne è una miniera. Le strutture enciclopediche sono una sicura eppure ridotta sorte di compendio. Leggo un libro qualunque e trovo sempre delle novità, alle quali non avevo pensato prima. Come mai, con tale lussureggiante fioritura di pensieri, il mondo non si presenta maturo moralmente e spiritualmente? Manca la buona volontà? (“Allora dai, le cose vere tu le sai”: Gaber).
Forse la maggior parte dei libri e del sapere non contengono l’energia per condurre il pensiero a realtà di vita. “Questo io l’ho detto; e adesso ti arrangi!”: è la posizione anche dei libri di etica o di morale. Si giunge anche all’estremo dell’abbattimento e della depressione: a queste altezze io non giungerò mai! Non esiste un kharma che mi inietti energia?
Per fortuna, tra le centinaia di libri della mia biblioteca, si è infiltrato un libriccino di altro tipo. Un libro che “fa ciò che dice”, perché ha sempre realizzata la Parola. Anzi muove sempre da una parola realizzata, e realizzata fin dall’eternità.
Quando prendo in mano quel libro, tutti gli altri sbiadiscono. Non so perché. Forse perché gli altri si leggono, ma questo si appoggia a me e mi decifra, anche a me stesso. È un libro non libro: è una forza divina, che realizza sempre ciò che esprime: anche a me e in me, se io mi abbandono a quel libro, che è anche davvero una presenza. Sì, Gesù presente personalmente come Parola Creatrice. Egli esige soltanto che io gli creda davvero, ossia che gli creda me stesso, senza riserve, aperto a capirlo, a fidarmi, a gioire per l’intimità di un amico. E l’amico è Dio!
05.02.18

Dov’è carità, ivi è Dio

Dov’è carità, ivi è Dio
Uno studio di psicologia, di medicina, di avvocatura, o dell’altro, può trasformarsi in luogo di adorazione del Padre ?
Sì, forse anche se gli attori non lo avvertono.
Chiaramente nei luoghi sopra ricordati, e in quasi tutti gli altri, ci si può dare all’adorazione. Sono luoghi, nei quali si benefica il prossimo. Senza avvedercene lì incontriamo Dio.
Ma è proprio vero? Quando ti abbiamo beneficato? Quello che avete fatto al più piccolo, l’avete fatto a me. Per incontrare il Padre, non occorre operare “sopra le righe”. Basta trovarci là, dove qualcuno ha bisogno del nostro aiuto.
Quando, dunque, entro nel mio studio di consulenze psicologiche, entro nel luogo della mia adorazione. Evidentemente non per sostituire l’adorazione eucaristica, ma per espanderla.
Certamente, se io sono cosciente di questa presenza di Dio, la qualità del mio lavoro prende un altro colore. Il “vado a lavorare” si incontra con il “vado ad adorare”. È un’adorazione senza formule rituali, condensata nell’azione benefica. La riconoscenza verso chi mi chiede aiuto, non si indirizza solo alla stima che la persona ha di me, né alla ricompensa per la mia opera prestata, ma soprattutto per l’occasione di trovarmi a operare con Dio: l’avete fatto a me.
La messa che ora mi è concesso di celebrare nello stesso studio, dove lavoro, è semplicemente un’altra forma e un’altra occasione della stessa adorazione a Gesù presente: l’avete fatto a me. Tutta la vita si trasforma in passeggiare con Dio e in Dio. È un ritorno a quel “rumore dei passi del Signore Dio, quando passeggiava alla brezza del giorno”. (Gn 3,8)
19.02.18

Semplicemente esserci

Semplicemente esserci
Gli atteggiamenti delle persone presenti al raduno “comunitario” della Messa, sono diversi. Qui ne ricordo tre: partecipazione, raccoglimento, distrazione.
L’ovvio atteggiamento della distrazione si realizza quando il “rito” annoia, e la presenza è solamente formale. Purtroppo non è l’atteggiamento di pochi. Evidentemente per la maggior parte dei distratti è ovvio lanciare la colpa sul prete.
L’atteggiamento del raccoglimento spiccato, lo noto in molte persone che, durante la Messa, si propongono di pregare. Mi ricordano molto le messe celebrate in latino, quando per “intrattenere” le persone si recitava il rosario durante la Messa. E non solo il rosario. E intanto il prete andava avanti per i fatti suoi, tranne in due occasioni: per il momento della allora detta consacrazione, quando il chierichetto di turno, quello che rispondeva in un latino press’ a poco, e che suonava il colpetto di campanello per avvertire quelli che recitavano il rosario a voce alta, di sostare per un po’, fino al secondo suono di campanello. E la seconda occasione era per lasciare che i presenti si inginocchiassero per ricevere l’ostia rigorosamente in bocca, nella quale era rigorosamente proibito di toccare l’ostia con i denti!
L’altro atteggiamento, quello sano è semplicemente quello di seguire e di partecipare a ciò che “si fa”. È un atteggiamento distante dalla distrazione e perfino dal raccoglimento, che allontana dal partecipare. Seguire semplicemente cercando di “capire” quanto si sta compiendo, e di “compiere assieme”. Dire, guardare, voltarsi, essere insomma “gentilmente” presenti.
07.02.18

Felicità del cristiano

Felicità del cristiano
La serenità e la felicità è il timbro del cristiano. Questa è la più facile, e spesso dimenticata, opera buona del credente in Gesù. Delle opere buone il nostro Gesù ci dice: “Vedano le vostre opere buone, e glorifichino il Padre”: Perfino il nostro sorriso tende alla gloria di Dio. Il testo è chiaro: “Così splenda la luce di voi davanti agli uomini, di modo che vedano di voi le buone (belle) opere e glorifichino il Padre di voi nei cieli”. Sembra che il naturale completamento delle opere buone sia l’esser viste e causare la lode al Padre.
Allora è necessario mostrare le opere buone? Non è contrario quel “pregare nel segreto” e il non fare come i farisei, che ostentano la loro bella condotta?
Forse la profonda differenza si pone tra i farisei (che operano per esser visti) e l’esser visti quando si esprime la nostra adesione, anche pubblica, alle opere volute da Dio e che, tra la gente, approdano a Dio nel lodarlo. Operare non per essere lodati, ma per lodare Dio, il quale stimola e sostiene le nostre opere della fede. Si tratta quindi di operare in Dio, per stimolare a Dio.
Tutta bontà umana, nei sentimenti e nelle opere, è semplicemente Dio presente nel credente. La gioia del credente in Gesù, deriva da una indecifrabile sicurezza di essere in Dio e che Dio è in lui. È una gioia pervasiva, difficilmente definibile, perché è il riverbero di quello Spirito, che in noi “prega con accenti sfumati, non narrabili e non descrivibili, eppure realissimi”.
Perché tale gioia serena si attui e pervada, è fondamentale credere nel Signore, non solo credere al Signore. Essere uniti a lui, come in un’Eucarestia perenne.
18.02.18

Atteggiamento di preghiera

Atteggiamento di preghiera
Certamente il nostro atteggiamento nel pregare, dipende dal nostro esserne convinti.
Per alcuni il pregare naufraga nelle preghiere, che solo la bontà di Dio sa accogliere, perché lui sa di come siamo fatti.
Un altro atteggiamento, nel pregare, è il nostro conversare con il “Dio là” o con il “Dio qua”. Un Dio lontano o un Dio vicino, qui e ora. I salmi spesso si richiamano a un “Dio là”: “vieni (!) presto in mio aiuto!”. Anche le preghiere liturgiche troppo spesso si rivolgono a un “Dio là”: Vieni.
La dolce bellezza è il pregare al “Dio qua!”. Ci sente, ci ama, ci indica tutta la familiarità con lui, dal momento che noi, immedesimati in Gesù, con Gesù siamo immersi misteriosamente nella Trinità. Il “Dio qua” è la Trinità presente. Come? Non conosciamo il come, eppure accogliamo il “che cosa”, quel “che cosa” (una volta si chiamava l’essenza) che noi accettiamo felicemente, come è felice l’accogliere le confidenze dell’amico o dell’amante.
Il mistero divino, che nella preghiera viviamo intensamente, è la confidenza in Dio.
La rivelazione (Dio che si svela) per alcuni è un peso, cui si è obbligati a credere, pena l’eresia e il peccato. Per altri è la confidenza di Dio, non pena, ma tripudio. La Trinità è tripudio, felicità per i cristiani, perché essa è un passo più in là del credere a un Dio unico e personale. Felicità cristiana, per quell’aggiunta di confidenza di Dio, che né Ebrei né Muslim sanno accogliere e sanno godere.
17.02.18