Essere pastori

Essere pastori
Ultimamente troviamo delle diocesi nelle quali sono state formate le cosiddette unità pastorali. L’aggettivo “pastorale” si riferisce anche a quel “odore delle pecore” detto da papa Francesco. Evidentemente è una forma di organizzazione, reputata utile ai vescovi. Tale divisamento per essere chiaro e accettato stimola alcune domande.
Si sa che la chiesa è un raduno di “popolo che crede a Gesù e alla sua parola”. Ed è bene si capisca se questa organizzazione risponde alle esigenze del popolo cristiano, o alle esigenze di una organizzazione guidata, che compie un proprio disegno, spesso non compreso neppure dai preti coinvolti.
Ho udito dire che le unità pastorali, nelle quali è inserito un prete senza che lui le conosca e ne apprezzi le esigenze, favoriscono la vita fraterna dei componenti. Si spera sia così, sebbene persino i frati organizzati in conventi non sempre godano di grande fratellanza.
Nasce un vistoso pericolo. I preti, trattati da fattori dell’organizzazione, incominciano a sentirsi funzionari piuttosto che pastori, funzionari che devono occupare dei posti. E questo è a scapito di una situazione affettiva, della quale abbisognano anche quegli uomini, che assumono il compito di “pastori”. Pastori, che, nella precarietà, non possono conoscere le pecore, ciascuna per nome.
Un altro pericolo potrebbe essere quello che troviamo scritto nella lettera di S. Pietro: “Pascete il gregge di Dio a voi affidato, provvedendo non costretti, ma con il cuore di Dio, non per avidità di denaro ma con dedizione, non spadroneggiando sulle persone, ma fatevi modelli del gregge” (1a Pt 5, 2-3).
Eppure, nella chiesa di Dio si notano anche evoluzioni. Vedrà chi vivrà.
28.06.18