Colore del peccato

Colore del peccato
Mi sembra di aver inteso. Dal politico è stato notato che, almeno in una città, il 54% dei reati sono perpetrati da stranieri. Non so se volendo liberarci dagli stranieri, si desidera che tutti i reati siano compiuti da cittadini DOC italiani. Che almeno i reati siano tutti di pretta origine italiana.
È questo un sano senso di italianità e di patria.
Il dubbio, ai meno intelligenti come me, che non so inalberarmi verso le altezze della politica, mi sorge dal fatto che, quando ho studiato etica filosofica e morale cristiana, non ho trovato la “species peccati” di esteri. Il peccato, e per connessione il reato, poteva assumere varie specifiche qualificanti. Per esempio, il furto era furto e poteva essere aggravato o specificato, se con scasso, se con rapina, se in associazione ad altri, ecc., ma non mi è mai capitato di sapere se era perpetrato da un italiano o da un cinese. Adesso finalmente supero la mia ignoranza per capire che il furto può essere perpetrato da mani bianche o nere o gialle. Finalmente è arrivato il furto nazionale o il furto estero.
La morale è semplice: il furto è azione criminosa. Per il cristiano, al dire di S. Paolo, tutto ciò che in qualche modo contrasta con il prossimo, è una lesione al “precetto dell’amore al prossimo”. Tra le cose che contrastano l’amore del prossimo è anche la non accettazione dello straniero, anche quella gridata con un rosario che pende dalla mano. Forse chi è ignorante non lo ricorda.
Preghiamo il Padre perché ci doni la vera sapienza. Quella che in Lui vede il Padre e in noi tutti vede i figli.
22.12.18

Gesù proprio incarnato

Gesù proprio incarnato
Il Vangelo, quando ricorda l’infanzia di Gesù, narra anche del rito ebraico di presentare il primogenito neonato al tempio per essere consacrato a Dio.
Gesù è sottomesso in tutto ai riti religiosi del suo popolo: fa parte dell’incarnazione. Non il vago farsi uomo, ma lo specifico farsi uomo da quella donna, in quel contesto culturale e religioso.
Entra Gesù in quella religione, perché da dentro di essa la vuol elevare e salvare. Egli non è come i satrapi, grandi o piccoli, nelle nazioni e nei conventi, che prima di promuovere qualche utile novità distruggono i valori passati. Succedeva allora con i re babilonesi, succede ora nei governi “democratici”.
Da dentro della religione ebraica Gesù eleva a “cristiana” la religione ebraica. Come, poi la chiesa, entrando nella religione pagana, immette in questa quel Gesù che rende sublime anche il paganesimo. Gli Atti degli Apostoli e le Lettere di Paolo cercano di descrivere questa “elevazione” dell’uomo in Gesù. L’uomo nella sua condizione concreta è elevato, non un uomo ideale.
Se Gesù, in quanto Uomo-Dio, entrasse nelle varie religioni esistenti in terra, distruggerebbe le religioni, oppure le rispetterebbe elevandole? Le Missioni cristiane hanno lo scopo di distruggere il senso religioso dell’uomo o delle religioni, oppure devono inserire in esse Gesù? Non un Gesù adattato o camuffato, ma il Gesù semplicemente autentico.
Come interpretare la salvezza delle religioni umane, con la presenza dell’Uomo-Dio?
29.12.18

Dio fedele

Dio fedele
La sicurezza della nostra fede, si basa sulla “fedeltà” di Dio. Dio fedele a sé e alle sue promesse, è una verità ribadita nei salmi, e nelle parole di Gesù e della Chiesa, primitiva e permanente nel tempo.
Sicurezza nella fedeltà.
Anche la teodicea e la filosofia, se si interessano di Dio, giungono a dichiarare la “permanenza” di Dio, nello scoprire in lui il “primo motore immobile”. È un commovente tentativo di definire Dio, l’infinito. Tentativo che richiama il tentativo di cogliere Dio, attraverso i novantanove nomi dell’Islam.
Sono tentativi di cogliere l’essenza di Dio, che sfugge a ogni limite, anche a quello delle “definizioni”: l’uomo che si sforza di alzarsi a Dio, per captarlo, per catturarlo.
Di fronte al Dio della speculazione umana, si pone il vero Dio, che nella storia si presenta “fedele”. Fedele a sé, alle sue promesse, al suo amore.
Una delle promesse, cui Dio è rimasto fedele, è quella “impossibile” della Risurrezione di Gesù. È promessa che completa e sublima la promessa di Dio nel liberare il “suo” popolo dalla schiavitù nell’Egitto.
Nei nostri momento (o periodi) di dubbio, di tristezza, di impotenza, ci regge la certezza che Dio è fedele, non ritira il suo amore, la sua fedeltà, il suo sostegno, sebbene nascosto. Può cessare il nostro fervore, può incrinarsi la nostra costanza, possono svanire i nostri propositi, ma Lui, il Padre, è fedele!
16.04.18

Preghiera del desiderio

Preghiera del desiderio
Sentiamo l’intimo bisogno che la nostra preghiera ci renda felici dell’incontro con il Padre. La preghiera è un bel modo di vivere l’intimità familiare con nostro Padre. Immergerci in Lui, nella sua bontà, nella sua misericordia, nelle sue braccia. Questa nostra posizione avviene perché la nostra povera preghiera è assunta da Gesù. E quel “per Christum Dominum nostrum”: che non è, come ci verrebbe da pensare, un richiedere qualche cosa per lui, a suo favore, ma per pregare attraverso lui, Gesù nostro fratello e nostro Signore.
Talvolta la nostra preghiera si concretizza nel semplice nostro desiderio di pregare, e, specie, nel desiderio di vedere finalmente il Padre.
“Mostraci il Padre, e ci basta!”: disse Filippo a Gesù. Era già preghiera, ed è il nostro desiderio dell’incontro definitivo con il Padre, quando il pregare il Padre si unisce mirabilmente al vivere il Padre.
Desiderio come preghiera, il desiderio preghiera. “Padre, vengo da te” disse il nostro Gesù.
Talvolta il desiderio invade il nostro pregare, e ne usciamo consolati. Il Padre non pretende una “grande” preghiera, perché ama la nostra preghiera, quella preghiera dei piccoli, che non sanno che cosa chiedere, come ci suggerisce Paolo. Eppure questo nostro “non sapere” non è disprezzato dal Padre, il quale fa penetrare lo Spirito in noi, il quale prega con parole che non conosciamo, perché sfuggono il nostro povero livello di creature, ma sono parole di vera e sublime preghiera, alla emissione della quale restiamo silenziosi… nella preghiera silenziosa del desiderio e dell’attesa.
22.12.18

Gesù è luce e salvezza

Gesù è luce e salvezza

Certamente il buio s’infittisce, quando si pretende di spiegare il mistero di Dio e di Gesù.
Tentativi, nella chiesa e fuori di essa, ci sono stati, innumerevoli, e tutti, se non sono tuffati nel Vangelo, finiscono per smarrirsi.
Certo è necessario non immedesimare il nostro bisogno di conoscere con la pretesa di sapere e di risolvere. Dio è mistero: nessuno ha mai visto Dio. Fortunatamente dopo che nel Vangelo di Giovanni leggiamo la frase appena ricordata, l’evangelista ci consola: il Logos ce l’ha fatto uscire. L’esplicazione del nostro Padre è solo Gesù. E Gesù non è un teorico astratto, ma è carne tattile.
La “spiegazione” di Dio, è un uomo di carne.
Uomo di carne. Il Logos divenne carne. La salvezza, quando ci sentiamo affondare perdutamente nel voler guardare l’incognita Dio, sta nel prendere per mano il Logos divenuto uomo, e lasciarci guidare o trascinare da lui.
La salvezza della nostra vita non la troviamo in nessuna scoperta umana. Nemmeno nelle più alte e sapienti riflessioni su Dio. Ma semplicemente affidandoci a Gesù. Infatti le più alte disquisizioni su Dio, che gli uomini ammirano, non ti portano la vera salvezza, ma una triste illusione di salvezza di tipo gnostico o buddhista, o islamico. Solo la concreta persona umile di Gesù veicola a noi l’unica salvezza reale, quella che viene da Dio, e non dai libri, neppure dai più religiosi.
19.11.18

Gesù. gioia e tristezza

Gesù, gioia e tristezza
Nella Lettera di S. Giovanni leggiamo una frase che ci riempie di gioia e anche di tristezza. Solo chi crede (ossia è sicuro, non opina soltanto) che Gesù è nella carne (Logos-sarks) è nella verità, chi non crede è nella menzogna.
L’aveva già pronunciato Simeone, quando Gesù era ancora in fasce (letteralmente, secondo Luca cap. 2, v. 7): il bambino è posto per caduta e per risurrezione di molti.
La gioia ci pervade, quando constatiamo che noi ed altre persone siamo fermi nel sapere, nel credere e nel sentire che solo Gesù ci porta al Padre, dove sfocia la nostra vita nella beatitudine. È la gioia, che promana dalla sicurezza nella persona di Gesù, l’unico che, salvando la nostra vita, le attribuisce fiducia e sicurezza.
All’opposto della gioia, spesso ci ghermisce la tristezza, quando incontriamo persone, che ci amano e che amiamo, le quali trascurano Gesù, unica causa di vera gioia. Tristezza ancora più lancinante, quando alcune di queste persone negano Gesù. Lo negano nella sua cara e forte persona di Uomo-Dio; o peggio, seguendo la superficialità di qualche autorello, negano la stessa esistenza dell’uomo Gesù di Nazareth.
Questa tristezza la incontriamo quando, guardando la televisione, scopriamo che Gesù è completamente trascurato, mentre in primo piano presentano, per esempio, l’ultimo rapporto lesbico della “famosa” attrice.
Quante trasmissioni senza Gesù, e perciò fonti di tristezza nel mondo, un mondo che si va autodistruggendo.
07.01.19

Da Spirito Santo

Da Spirito Santo
Talvolta mi trovo in difficoltà, quando nel Vangelo o nella liturgia, mi imbatto in frasi, che mi lasciano un po’ perplesso. Questo disagio lo subisco mentre leggo i testi italiani. Allora ricorro agli stessi testi, espressi in latino o in greco (lingue che non conosco benissimo, ma nelle quali nuoto tenendo la testa fuori dall’acqua).
Stamani, appena svegliato, apro il Vangelo e leggo: “Il mio regno non è di questo mondo”. In realtà Gesù dice che il suo regno non deriva da autorità umane, ma da Dio. “Il mio regno (la mia autorità: “Tu dunque sei re” gli dice Pilato) non deriva dal mondo. E allora si capisce che il suo regno non si affianca agli altri regni, o altre repubbliche, tanto da combattere oppure essere combattuto con le armi (con buona pace per le Crociate o per le Inquisizioni).
Inoltre incontro tutti i giorni una frase che mi stride: “Maria concepì per opera dello Spirito Santo”. Dalla Bibbia so che lo Spirito Santo è quel Dio, del quale si scrisse: “Disse e il mondo divenne”. Mi sembra un po’ fuorviante pensare a un Dio che dice “sia il mondo” e poi si metta al lavoro con cazzuola e malta.
Allo Spirito Santo si attribuisce quel “per opera dello Spirito”, mentre è lampante la frase biblica: “Concepì da Spirito Santo”. Quel “concepire per opera” mi puzza tanto da medico ginecologo, che si prepara i guanti per operare una fecondazione artificiale. Invece mi piace vivere semplicemente lo Spirito quale Dio (e lo è!) che “disse e avvenne”. E questo sempre, quando ricordiamo la forza dello Spirito Santo in noi e nella chiesa e nel mondo. Anche oggi. Anche adesso. In me, in noi.
04.01.19

E vide che era bello

E vide che era bello
Gesù ci ha raccomandato di non fermarci a gioire per “aver cacciato i demoni”, ma perché in cielo si è tenuto nota.
Nella vita abbiamo compiuto anche delle azioni buone e creato nella poesia, nella pittura, nella musica, in letteratura e in mille altri modi, dal riordino della scrivania al lavoro in cucina. Insomma, anche in piccole cose, abbiamo migliorato il mondo. Poi si lascia tutto? Resta soltanto il rimpianto degli amici o dei familiari, o il sollievo di chi ci stava accudendo e che noi – come ho letto, perché scritto con fine ironia – lasciamo gli altri “serenamente”: di chi la serenità, di chi parte o di chi resta?
In qualche modo, anche noi, vivendo, abbiamo compiuto del bene. E allora “perdiamo” tutto, grazie all’inesorabile ora, come diceva il poeta latino?
Il bene e il bello che si fa, resta. Anche per noi, figli, vale ciò che la Bibbia dice di nostro Padre, quando crea: e vide che era una cosa buona. La contemplazione gioiosa del bene compiuto.
Orbene, la vita futura è un godere del bene compiuto. Allora gioiremo nel “contemplare” il Padre. Non solo, ma anche nel contemplare per sempre l’opera di Dio. Di quel Dio, che crea l’uomo e poi gli affida, come completamento della creazione, il compito di “operare la terra”.
Il godimento del Paradiso, è fatto anche dal nostro gioire per il bello e per il bene, compiuto da noi in vita.
Bene e bello, destinati a durare e a essere contemplati.
26.11.18

Gesù salva

Gesù salva
Sto incontrando gli scritti di un teologo, abbastanza noto. A livello teologico si oppone sia a correnti di pensiero, sia a certe disposizioni disciplinari, che, a suo parere e anche in parte al mio (parere che espressi anche in questi abbaini) non collimano con il recente Concilio Ecumenico.
È una posizione teologica, che – mi sembra – non ha nulla da invidiare alle “scuola concorrente” dell’antichità, del Medio Evo e del tempo anche recente. È sufficiente ricordare le scuole teologiche che si confrontarono durante tutti i Concili Ecumenici e a ridosso di essi.
La ricerca è oculata e puntita, però la domanda che mi sorge spontanea e che rivolgo a me, quando rifletto, quando parlo, quando scrivo: “Cui prodest?”. A chi serve? Se serve a illuminare, a confortare, ad accompagnare il cammino di noi poveri viandanti spirituali, spesso un po’ bolsi, allora ben venga qualsiasi teologia, altrimenti rischia di restare nell’iperuranio delle astrazioni.
Gesù non è venuto per fondare un’accademia teologica, ma per salvare le persone illuminandole e rifocillandole. Egli insegnava, quando aveva compassione delle “pecore senza pastore”, ma non per fondare scuole di pensiero astratto, filosofico. Egli parlava per salvare la gente dall’errore, non per discutere sul sesso degli angeli, sebbene l’avesse nominato.
Il “cui prodest” di Gesù era il salvare dall’errore e dall’infelicità – non i pensatori scribi accademici – ma le persone perché si orientassero nel cammino guardando la realtà di Dio, non speculando su principi, religiosi più o meno.
21.03.18

Formula e parola

Formula e parola
Fino a che tutta la mia preghiera, che si serve delle formule usuali, non passerà tutta dalla formula alla parola, mi sentirò un cembalo tintinnante, per usare una frase scritturistica.
La formula di preghiera è analoga al denaro. Se servi il denaro, ne sei schiavo; se ti servi del denaro, ne sei padrone.
Non è raro, soprattutto nelle persone di una certa età, che se non hanno recitato una preghiera, come per esempio il Rosario, crede di non aver pregato. Così avviene anche per chi è obbligato a “recitare il Divino Ufficio dei Salmi”. Un mio antico padre spirituale avvertiva che altro è soddisfare il Diritto Canonico che obbliga a quelle formule, altro è sentire di aver pregato. Ricordo ancora la barzelletta dei canonici che stavano recitando il “Breviario” in coro, come era loro obbligo. Durante la recita scoppiò un furioso temporale, e subito sospesero la recita del breviario per pregare Dio di salvarli.
Chi si è assuefatto all’aver compiuto il transito dalla formula alla parola, si sente a disagio, quando nel pregare assieme con altri sente che la formula, quasi sempre recitata in fretta, prevale sulla parola, e si perde, e, se desidera pregare, deve dissociarsi dal gruppo.
Come mai parole come “Padre”, “amore”, “salvezza”, “Gesù”, ecc. possono essere pronunciate senza il fremito del cuore, per lasciar scorrere la recita di formule?
Il Padre ci dona lo Spirito, affinché possiamo esclamare “Padre nostro”.
23.11.18