Padre, Padre davvero

Padre, Padre davvero 23
“Non chiamate padre di voi sulla terra, uno infatti è padre di voi, quello celeste” (Mt 23,9).
Da questa affermazione chiara di Gesù, deduciamo che di padri ce n’è uno solo: quello del cielo. Per aumentare il numero di figli da amare sulla terra, Dio delega il potere mirabile della genitorialità alla coppia: padre e madre.
L’unica paternità divina ci sostiene, ci placa, ci illumina il nostro essere creature e tutti fratelli e sorelle tra di noi, e tutti figli di un unico Padre.
Le appartenenze diverse alle nostre famiglie o a gruppi stabili, come i conventi, per ciò che sono nominati famiglie, sono “prestiti divini” a diverse realtà; però una sola è la famiglia, per uomini e per angeli: la famiglia divina, quella che ci fa realizzare l’amore di Dio (volontà) come in cielo, così in terra. Altrimenti non potrebbe esistere parità tra cielo e terra, come afferma Gesù.
La nostra esistenza sulla terra va dal concepimento alla morte, per entrare apertamente e chiaramente nella famiglia del Padre.
La nostra vita è anticamera per l’attesa del “Paradiso”. La vita, che trascorre è attesa.
Attesa che il Padre allevia in mille modi, nei quali possiamo intravvedere “il cielo”. Arte, amicizia, amore, creatività nel lavoro, attività sportive, buoni pranzi, e altro, sono diversivi per alleggerire l’attesa, talvolta protratta per molto tempo.
In questa attesa il Padre si fa intuire. Perfino il futuro cibo è anticipo del mangiare con Cristo nella vita eterna.

Proiezione o scoperta

Proiezione o scoperta

Mi è stato chiesto: tutto ciò che diciamo riguardo a Dio, è mera proiezione? Ossia attribuiamo a lui quello che noi pensiamo di lui, oppure il rapporto non è proiettivo, anche quando scopriamo nuove sfaccettature nel conto di Dio?
Nel nostro rapporto con Dio, corriamo anche il rischio di affermare di lui, ciò che noi immaginiamo: e qui si tratta di proiezione. Però esiste anche una scoperta progressiva della sua infinita realtà.
Ricordo quello studente delle superiori, che doveva assistere a un dramma teatrale per riferire poi in classe.
All’inizio colse il significato (non completo) del dramma. Ritornato ad assistere ne scoprì il valore morale. Dopo ancora, sotto l’influsso di una lezione di disegno, l’occhio gli cadde sui colori delle scene. In seguito a una lezione di fisica sulle luci, notò anche il tipo di illuminazione della scena.
Non inventava nulla di nuovo, ma scopriva particolari, in anticipo non notati. Questa non era proiezione, ma successive scoperte dell’oggetto, stimolate da una nuova sensibilità via via acquisita.
Con Dio avviene qualche cosa di analogo: si scoprono in Dio nuove inflessioni, che aiutano a vedere ciò che prima non si era in grado di vedere.
La proiezione vede nella divinità ciò che l’uomo immagina di vedere; anche un animale o una persona corrotta: da qui nascono tutte le forme di idolatria.
La progressiva scoperta è un dono di Dio e della nostra natura. Scoperta, che è certa, se confrontata con il Vangelo.

Ideali fasulli

Ideali fasulli

Una delle grosse responsabilità, che si assumono i nostri mezzi di comunicazione, è quella di indicare modelli di comportamento impossibili per influenzare le persone, affinché si adeguino a quella che essi spudoratamente definiscono “civiltà”, mentre è, sì e no, cultura.
Modelli impossibili a imitare dal novanta per cento delle persone.
Ricordo quello psicanalista, che diceva che qualche loro cliente, al termine del trattamento, l’unica cosa che aveva appreso era quella di imitare il tipo di cravatta dello psicanalista.
Modelli impossibili, che giornali e televisioni sfornano a bizzeffe.
Gli sprovveduti si sforzano di adeguarsi per sentirsi “in” nella società. Però non riescono, naturalmente, a imitare. Questo segna una sconfitta, che genera depressione, amica di un malessere esistenziale, parente prossimo della disperazione.
Questa miseria è da sempre. Non per nulla la filosofia greca ripeteva quel “conosci te stesso”, e così voleva indicare la via non dell’imitazione di un ideale fasullo, ma della misura semplice della persona.
Ho sentito spesso, durante la mia cosiddetta formazione, l’esortazione da parte di qualche mio “educatore” a imitare i santi. Per fortuna il buon senso insito nei miei colleghi e in me, era quello di “lasciar cantare le passere”.
Che dire della nostra società disperata, nella quale il suicidio è l’esito di stimoli irraggiungibili?

L’unico maestro

“Voi non fatevi chiamare rabbi [insegnanti], poiché uno solo è il vostro Maestro, voi siete tutti fratelli” (Mt 23, 8).
Si può accostare a questa frase di Gesù, il titolo dell’enciclica che designa la chiesa come “Mater et Magistra” (Madre e Maestra). È questo un titolo illegittimo? Arrogato da una autorità umana? No.
Gesù aveva detto: “Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28, 19). Ammaestrate: fate i maestri.
Notiamo che gli Apostoli non erano andati a frequentare le scuole rabbiniche in tutti i loro gradi. Anche Paolo l’aveva fatto, frequentando la scuola di Gamaliele, eppure rinuncia a tale corso di teologia.
Gesù manda i suoi “insegnando tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 20). Gesù quindi ci costituisce insegnanti nel ripetere la sua parola, non quella della scuola dei rabbini, della sapienza greca, delle religioni orientali.
E l’esigenza di “insegnare” è un compito della chiesa, naturalmente missionaria.
La chiesa è il contenuto della persona e della parola di Gesù. La chiesa nella sua totalità: papa, vescovi, preti, cristiani tutti.
Quando, nella nostra piccolezza, riecheggiamo la parola di Gesù, siamo rivestiti del potere di Gesù nel comunicare la verità. L’unico Maestro, in realtà, è tutti coloro che credono in Gesù.
Da qui la necessità di confrontare ogni nostro insegnamento per il bene e per la luce delle persone, con lo specchio della Parola di Dio.
Non è male se, per assumere il nostro insegnamento cristico, rileggessimo il documento “Dei verbum” del Concilio recente.

Paura e amore

Paura e amore

“Signore, allontanati da me, che sono peccatore”: esclamò Pietro.
“Sono venuto per i peccatori”: affermò Gesù.
A chi dei due dare ragione?
A Pietro, che agiva sinceramente, secondo la sua coscienza di uomo religioso?
A Gesù, che agiva per incarico di Dio?
La religiosità, sicuramente sincera, di Pietro, lo allontanava da quel grande profeta, che era Gesù. L’amore immenso di Dio, immisurabile, reale e misterioso, avvicinava il Padre alla creatura, che è davvero sua fin dalla nascita.
La religione discosta da Dio. La fede accosta Dio all’uomo. La religione teme Dio e il sacro. La fede accoglie e abbraccia Dio, con affetto di figli.
Osservo purtroppo quanta infiltrazione di sacralità religiosa ha corrotto la facilità amorosa della fede.
Nella fede di molti credenti ha più valore una religione apotropaica, che non l’amorevolezza dei figli.
Perfino in quello squisito dono divino dei sacramenti, troviamo strisce tristi di venature di religione terrorizzante.
Vangelo e sacramenti (traduzione pratica del Vangelo) sono espressioni del dono di Dio, e molti trascurano il Vangelo e rifuggono, per paura del sacrilegio, dai sacramenti. Per grazia, il Padre conosce i nostri cuori!

Legge e amore

Legge e amore

I due piani: quello della legge, e quello del cuore.
Leggiamo, e apprendiamo per viverlo, nel Vangelo, il racconto (ma è mero racconto?) di quella peccatrice che si prostra ai piedi di Gesù, entrata non invitata, in casa del fariseo.
Gesù confronta i due piani: da un lato il pediluvio, il bacio di accoglienza, il profumo, dall’altro le lacrime ai piedi, i baci ai piedi, i profumi ai piedi. Per Gesù la “cura” dei suoi piedi, prevale sul rito del fariseo, rito inoltre non eseguito.
Una donna piange e opera, e di fronte a uno che giudica Gesù, per aver accettato il contatto con una peccatrice. Gesù mostra che anche le leggi umane e mosaiche, possono esser elevate in maniera diversa, quando sono dettate dal sentimento. Il fariseo osserva la Legge, la donna segue l’impulso di un cuore pentito.
È così bello seguire l’impulso del cuore, quando siamo colpiti dalla bontà di Dio, o anche solo di qualcuno che ci sta davanti!
Il cuore, le emozioni, i sentimenti non sono cavalli bizzarri, ma seguono leggi interne, che l’intelletto fatica a riconoscere. Queste leggi sono moltiplicate per mille, quando il cuore è mosso da Gesù, da Dio.
La Rivelazione di Dio in Gesù, percorre strade, che la teologia può anche intuire, ma difficilmente riesce a descrivere. Gesù, quando parla del Padre e dell’opera del Padre a lui affidata, talvolta cita le frasi di Mosè o dei profeti, però le spiega in modo nuovo: il modo della salvezza.

Invenzione divina

Invenzione divina

L’Eucarestia è una bellissima invenzione, degna del brevetto di Dio.
Gesù volle restare con noi, non solo come dolce ricordo, ma come decisa presenza. Anche fisica, sotto un certo aspetto. Non come l’urna delle ceneri del defunto, conservata nelle famiglie. Ma vivo e operante.
Gesù presente sempre, che decise di essere sempre con noi, nel pane e nel vino.
È una presenza che ci accompagna anche in maniera tattile, venendo incontro alla nostra povera corporeità.
Non credo che nessuna chimica, possa aver a disposizione degli alambicchi tali da trasformare il pane in una persona viva. Però Dio, che sa creare l’universo, è in grado anche di presentarsi a noi attraverso un semplice cibo.
A noi resta ammirare commossi e riconoscenti.
Ricordo che, da ragazzo, ho udito un predicatore che diceva: “Se la gente comprendesse la grandezza della presenza di colui che sta nel tabernacolo, sradicherebbe tutti i tabernacoli per portarseli a casa”. È una boutade ridicola, per indicare l’impossibile. Ma allora si diceva anche così.
Eppure, a pensarci un po’, noi credenti, quando appena ci soffermiamo, restiamo sempre dolcemente colpiti, riconoscenti, commossi ed entusiasmati.
Quando poi pensiamo che nell’Eucarestia si infulcra ogni relazione tra credenti e con Dio, allora non ci distacchiamo più da ciò che avviene dentro di noi.

Invenzione divina

Invenzione divina

L’Eucarestia è una bellissima invenzione, degna del brevetto di Dio.
Gesù volle restare con noi, non solo come dolce ricordo, ma come decisa presenza. Anche fisica, sotto un certo aspetto. Non come l’urna delle ceneri del defunto, conservata nelle famiglie. Ma vivo e operante.
Gesù presente sempre, che decise di essere sempre con noi, nel pane e nel vino.
È una presenza che ci accompagna anche in maniera tattile, venendo incontro alla nostra povera corporeità.
Non credo che nessuna chimica, possa aver a disposizione degli alambicchi tali da trasformare il pane in una persona viva. Però Dio, che sa creare l’universo, è in grado anche di presentarsi a noi attraverso un semplice cibo.
A noi resta ammirare commossi e riconoscenti.
Ricordo che, da ragazzo, ho udito un predicatore che diceva: “Se la gente comprendesse la grandezza della presenza di colui che sta nel tabernacolo, sradicherebbe tutti i tabernacoli per portarseli a casa”. È una boutade ridicola, per indicare l’impossibile. Ma allora si diceva anche così.
Eppure, a pensarci un po’, noi credenti, quando appena ci soffermiamo, restiamo sempre dolcemente colpiti, riconoscenti, commossi ed entusiasmati.
Quando poi pensiamo che nell’Eucarestia si infulcra ogni relazione tra credenti e con Dio, allora non ci distacchiamo più da ciò che avviene dentro di noi.

L’aiuto del Padre

L’aiuto del Padre

Quando le cose scorrono lisce e tranquille, viviamo sereni.
I marinai, però, dimostrano la propria maestria non tanto nella bonaccia, quanto piuttosto durante la tempesta.
Così è anche per la nostra fede. Gli scossoni ci turbano anche nel nostro modo di nutrire la fede. Eppure sono le crisi (piccole oppure esistenziali) che saggiano la consistenza del nostro credere.
Comunque, spesso nelle difficoltà o nelle prove, sorge spontaneo il nostro modo di rivolgersi al Padre per ricevere aiuto. La prova è provvidenziale per scuotere la nostra fiducia nel Padre. Ed ecco anche la provvidenzialità della prova: un ravvivare la fede.
Se sei nella prova, prega; se sei nella serenità, salmeggia: questo ci indica Agostino.
Forse ci dimentichiamo di salmeggiare (ringraziamento e lode) durante la serenità, e quindi nella prova o ci dimentichiamo di pregare o ci disperiamo.
La prova – soprattutto le tenebre riguardo al credere – non è una disgrazia, ma uno svegliarino per la preghiera, per la fede, per la fiducia nel nostro Padre.
Si attua l’opposto di quanto scrive il poeta latino: se le cose procedono bene, annoveri molti amici; se avviene la disgrazia scappano tutti. Infatti nella prova il Padre si fa più vicino. È sufficiente aprire gli occhi per vederlo.

La posizione del credente

La posizione del credente
Molte volte (troppe nella mia vita) ho udito le persone, che si reputano lungimiranti e superiori, la quali sentenziano che le religioni, cristiana compresa!, sono uguali.l
Mi sembra quasi inutile ripetere che il icristianesimo non è la “vera” religione (come si studiava un tempo) che si oppone alle altre religioni, quindi false, ma è qualche realtà costitutivamente unica.
Avvicinare persone di altre credenze è umanamente corretto e umanamente positivo; ma ciò non può comportare un giudizio sbrigativo e superficiale sulle “religioni” tout court.
Gesù, stimava e trattava con persone di varia religione: accostava ebrei e samaritani, farisei e greci (ossia idolatri). Da Gesù, noi suoi fedeli, impariamo ad avvicinare e a stimare tutti, come Gesù stimava il “buon” samaritano. Gesù intrecciava un dialogo con tutti.
Sì, ma…
Gesù non approvava tutto e tutti. Ricordiamo gli scontri con gli scribi.
Eppure la sua posizione è limpida, così come è espressa da Giovanni nel riferire il dialogo di Gesù con la Samaritana.
“Credimi, donna, viene un’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: infatti il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e coloro che lo adorano, in spirito e verità devono adorarlo” (Gv 4, 21-24). Dalle religioni umane, alla partecipazione di Dio.