Saper soffrire

Saper soffrire
Mi ha gradevolmente sorpreso una annotazione, scritta da me in un libro undici anni fa: “La professione di confessore e di psicologo è offrire spazio alla sofferenza degli altri”. Forse oggi aggiungerei: “Anche alla sofferenza propria”.
Noi siamo famelici di godere di maggiori spazi per il nostro e l’altrui divertimento, ma riacquistiamo un fattore della misura di noi e del mondo, se non neghiamo spazio alla sofferenza. Non il gusto masochistico del soffrire, ma il rispetto della sofferenza altrui, e anche nostra. Non con l’aumento di autopunizioni, ma con il semplice “portare la croce per seguirlo”.
Alleviare la sofferenza chiedendo “restate qui e vegliate con me” è naturale e anche liberatorio. Ma questo significa non allontanare la sofferenza, ma portarla assieme. Già prima della sofferenza del Getsemani, dove patì il terrore fino a sudare sangue, Gesù aveva sofferto nel Cenacolo: “Uno di voi mi consegnerà ai nemici” e “tu negherai di conoscermi”.
Eppure nel pieno della sofferenza, Gesù provvede a rinforzare i suoi: “Prendete e mangiate… sarò con voi sempre”. La sofferenza accettata davvero, inocula anche la forza di provvedere agli altri. Infatti la quota di sofferenza stabilita per ogni persona, fa parte dell’integrità della storia di quella persona, rendendola esistenzialmente completa (il testo latino è: perfetta!). La completezza aiuta la persona ad attivare tutte le proprie possibilità.
La inevitabile sofferenza umana, accolta serenamente, perfeziona anche la storia della persona e la rinforza per vivere con Gesù il dono di sé.
27.03.18