Imparare dal Padre

Imparare dal Padre
Molte persone si turbano con se stesse, anche quando si riferiscono alla propria vita cristiana e alla propria preghiera. Sono turbate perché si trovano fuori squadra davanti ai propri ideali di vita o di interiorità. Esse nutrono verso di sé una severità inquieta e inquietante. Non si sopportano difettose o perfino peccatrici.
Però Dio, nostro Padre, indica come trattare noi stessi per trovarci bene con noi. Da nostro Padre dobbiamo imparare a volerci bene.
Sappiamo che i due precetti fondamentali sono l’amore di Dio e l’amore del prossimo: cioè l’amore a Dio e l’amore al prossimo. Come prossimo noi giustamente pensiamo a chi ci sta attorno. Però ci dimentichiamo che anche noi siamo prossimo. E il nostro prossimo più prossimo a noi stessi siamo proprio noi.
Dio ci ama, da lui dobbiamo apprendere ad amarci.
Una corrente ascetica, serpeggiante anche tra i cattolici, indica di essere perfetti e puliti del tutto, quando si prende contatto con Dio nella preghiera, come se Dio – come nell’Antico Testamento – amasse solo i giusti e rifiutasse i peccatori. È opportuno ricordare che Dio ama tutti, poiché il suo “mestiere” è l’amore. Inoltre Gesù è venuto per i peccatori. È per gli ammalati, il medico, non per i sani. Egli si è incarnato “per la nostra salvezza”. Gesù ama la pecora dispersa. Dio ci ama non perché siamo giusti, ben vestiti e ben pettinati, ma perché siamo suoi figli, spesso laceri e sporchi. Se sporchi ci ama per pulirci, non pretende che siamo sempre puliti.
Così noi, su esempio di Dio, siamo stimolati ad amarci sempre, anche quando siamo tentati di rifiutarci in ciò che siamo.
05.03.18

Padre!

Padre!
Vedo scritto: Dio ama l’uomo come figlio. È una frase, secondo me, un po’ pericolosa.
Se Dio ama l’uomo come figlio, allora l’uomo si rivolge a Dio come Padre. È quel “come” che mi stona.
Realmente Dio ama l’uomo non come figlio, ma perché figlio. E l’uomo ama Dio non come padre, ma perché Padre.
Mi pare una dissonanza quando noi si dice: Dio è l’Onnipotente, è il Glorioso, è l’Immenso, e non Dio è mio Padre, nostro Padre. L’Onnipotente, il Glorioso, l’Immenso, riguardano Dio e le sue qualità: belle, perfette, ammirevoli, eppure esse sono là, non si toccano, se non tangenzialmente. Quando invece parliamo di Dio perché Padre, allora vediamo Dio in relazione. Un padre è padre se ha un figlio, altrimenti è scapolo o tutt’al più marito. Ma, se padre, allora ha relazione.
Dio è Padre. Padre, perché ha un Figlio. E si apre uno sguardo quasi oscuro e impossibile, sebbene necessario sulla trinità divina.
Però quando Gesù, a nostro uso, uno della Trinità, sperimenta Dio Padre, ci assicura – data la sua “esperienza” – che Dio è Padre per noi, è Padre mio e Padre nostro, allora non mi è più permesso dire che Dio mi ama come figlio, ma perché figlio.
E qui si apre il cuore alla gioia e alla fiducia. Alla gioia per l’appartenenza di me, povera creatura, alla Persona di Dio. Alla sicurezza e alla fiducia, per il sicuro appoggio al braccio dell’Onnipotente Padre!
Tu sei il mio Padre! E il cuore si scioglie nella tenerezza, quasi nelle lacrime di gioia. Quando poi riflettiamo che non possiamo dire che Dio è Padre senza noi appartenere a Gesù, allora in Gesù ci viviamo figli veri.
27.02.18

Rischiarare la preghiera

Rischiarare la preghiera
Rivolgerci a Maria con un “Ave” oppure con un “rallegrati” è un inizio diverso di preghiera. Una preghiera composta e un po’ fredda nell’”Ave”. Un trovarci nella gioia di Dio nel “rallegrati!”.
Quando da bambino mi venivano insegnate le preghiere, tra queste l’Ave Maria, noi bimbi dovevamo assumere un atteggiamento fermo, occhi bassi, mani giunte. Eppure la vitalità del bambino tende al gioco. Sì, esiste un libro che invita i bambini a giocare con Gesù. Però purtroppo la preghiera era privata della festosità del gioco. E così il bambino, pregando, doveva andare contro di sé. Non gli era concesso di scherzare con Gesù, cosicché lo scherzo fosse il suo modo di contattare Gesù e, quindi, di pregare. La preghiera diventava un dovere serio, imposto, antipatico.
Lasciarci allegri, da piccoli e da grandi, e attraverso Gesù con il Padre.
Per pregare compunti, aspettiamo i momenti pesanti: la vita non ce li nasconde e non ce li risparmia.
Ma ogni cosa a suo tempo. Ce lo insegna Gesù.
Quando i farisei rimproveravano i discepoli di Gesù di non osservare, nei tempi debiti (Quaresima?) i digiuni che i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei osservavano e perciò indicavano a Gesù di mettere in riga anche i suoi discepoli, Gesù, come e sempre libero, dice: “Per il momento non digiunano, perché sono come a nozze; però anche per loro verrà il momento dopo le nozze, e allora digiuneranno”. Da un digiuno rituale, a un digiuno esistenziale.
Così è per la preghiera: godiamola quando viviamo e proviamo il contatto con Gesù, poi anche per noi c’è la “nostra croce”.
04.03.18

Gesù gioioso

Gesù gioioso
In questi giorni mi soffermo come posso, e perciò vagamente, sul gusto del piacere e della gioia in Gesù.
Mi sembra opportuno, come premessa, ricordare due aspetti della gioia e del piacere. Un aspetto è quello di provare piacere per situazioni nuove, che si riallacciano per prossimalità o per riemergenza a piaceri trascorsi. Un secondo aspetto è suggerito dal fatto che noi scorgiamo il piacere negli altri, riflettendo in loro nostre esperienze di piacere vissute.
Gesù dice ai discepoli: “Io riapparirò e voi godrete” perché riflette sui discepoli il proprio piacere di incontri gradevoli e graditi.
Una frase che continua a cantarci dentro, e che troviamo in Matteo e in Luca: “Sì, Padre, così è piaciuto a te” (Lc 10, 21). Il latino recita “placuit” (piacque), e il greco originale ha un termine profondo e molteplice nei significati: “eudokie”. Il termine riferito a Dio indica una disposizione benevola di Dio verso l’uomo, ossia un sentimento di compiacenza. Gesù conosceva sentimenti di simpatia: “Vide e amò” dice il testo, quando Gesù incontra il giovane disposto a seguirlo.
Anche dopo il battesimo di Gesù, questi è descritto come oggetto di benevolenza. La gioia di essere amati Gesù la prova e vede nel Padre la stessa gioia.
Ed è gioia ravvisata nel Padre, perché prima sperimentata da chi tale gioia la sente in sé. Solo così Gesù poteva descrivere la gioia del padre nella parabola del figlio dissipatore (prodigo).
La gioia di Gesù è così intensa che diventa esultanza (agalliasato: Lc 10,21). Espressione di gioia provata fisicamente, tanto impellente da diventare canto e inno.
01.03.18

Convertirci alla gioia

Convertirci alla gioia
Non ho incontrato delle persone, le quali mi recavano una bella notizia, che non me l’avessero comunicata senza sorridere.
Il sorriso è l’atteggiamento più consono a chi sa di fare un piacere.
Poi assisto all’annuncio della più bella notizia di sempre, recata da persone con il muso lungo, con voce monotona, quasi con il dispetto di essere costrette ad annunciare. È triste, perché la più bella notizia del mondo è quella che Gesù è risorto e che ci vuol tutti felici e salvi. Non per nulla quella bella notizia già da sempre si chiama “Vangelo”, ossia buona (greco: eu) notizia (greco: anghelion).
Quanto io stesso ho sprecato il tempo dell’annuncio della gioia, entrando più nelle elucubrazioni teologiche, che non nel calore di una gioia totale! Però i limiti ci avvolgono e, mentre cerchiamo di toglierci dalla prigionia della tristezza, dobbiamo implorare la gioia, quella gioia di Dio, che diviene contagiosa.
Il Vangelo è spesso posto in relazione con il peccato, con l’impegno, con la pietà, ecc. Difficilmente si trova trattato in relazione alla gioia. Eppure il suo nome stesso richiama subito la gioia.
Ricordo che un anno passato, indicavo come sforzo di “penitenza quaresimale” quello di “convertirci alla gioia”. Non una gioia facile, che si esaurisce in una risata all’ascolto di una gag, ma la gioia che penetra il cuore, il quale s’accende di serenità riconoscente per quel dono impensabile di Dio, che è Gesù.
Ogni giorno ci assale la tentazione della tristezza, soprattutto nei momenti critici della nostra esistenza; ogni giorno è tempo di rinnovare la conversione alla gioia.
20.06.17

Dio, nostra sicurezza

Dio, nostra sicurezza
Il gusto perverso di togliere la speranza. Questa è una delle dinamiche, conseguenti lo studio illuministico del Vangelo. Il cosiddetto metodo storico-critico, potava dal Vangelo tutto quanto non era ammesso da un certo modo di critica razionalistica: niente angeli, niente miracoli, niente risurrezioni, e pochissime frasi attribuite a Gesù. Allora che resta alla nostra fede e alla nostra speranza?
Quel metodo serve solo a creare una società di disperati, aggrappata ai dogmi razionalisti o al vivere epicureo, per poter godere ancora di qualche “valore” e sognare un po’ prima dell’annientamento.
E chi crede in Gesù è un illuso oppure un felice di vivere ora e sempre?
Troppa parte della nostra cultura e della nostra società ci ruba la speranza e con essa ci ruba il portafoglio per farci rimpinzare di false sicurezze: denaro, piacere, dominio, ecc.
Noi cristiani, felici di poter sperare, siamo invitati a rinfocolare l’autentica speranza, quella che si regge sulla Parola di Dio, sul Vangelo puro, non denudato e sfrondato da pretese di obiettività razionalistica e illuministica. Infatti noi non siamo illuminati dalla ragione (di chi? dello scrittore di turno? di Voltaire? del pizzicagnolo?), ma dalle ragioni di Dio.
Dalla nostra parte sta lo Spirito Santo, non le pagine dell’Enciclopedia. Questa crea notizie, quello dona la felicità del credere e dello sperare. Noi ci basiamo su Dio, il razionalista si basa sul filosofo A, contraddetto dal filosofo B, a sua volta scalzato dal filosofo C.
28.03.18

Gesù salva

Gesù salva
Sto incontrando gli scritti di un teologo, abbastanza noto. A livello teologico si oppone sia a correnti di pensiero, sia a certe disposizioni disciplinari, che, a suo parere e anche in parte al mio (parere che espressi anche in questi abbaini) non collimano con il recente Concilio Ecumenico.
È una posizione teologica, che – mi sembra – non ha nulla da invidiare alle “scuola concorrente” dell’antichità, del Medio Evo e del tempo anche recente. È sufficiente ricordare le scuole teologiche che si confrontarono durante tutti i Concili Ecumenici e a ridosso di essi.
La ricerca è oculata e puntuta, però la domanda che mi sorge spontanea e che rivolgo a me, quando rifletto, quando parlo, quando scrivo: “Cui prodest?”. A chi serve? Se serve a illuminare, a confortare, ad accompagnare il cammino di noi poveri viandanti spirituali, spesso un po’ bolsi, allora ben venga qualsiasi teologia, altrimenti rischia di restare nell’iperuranio delle astrazioni.
Gesù non è venuto per fondare un’accademia teologica, ma per salvare le persone illuminandole e rifocillandole. Egli insegnava, quando aveva compassione delle “pecore senza pastore”, ma non per fondare scuole di pensiero astratto, filosofico. Egli parlava per salvare la gente dall’errore, non per discutere sul sesso degli angeli, sebbene l’avesse nominato.
Il “cui prodest” di Gesù era il salvare dall’errore e dall’infelicità, non i pensatori scribi accademici, ma le persone, affinché si orientassero nel cammino guardando la realtà di Dio, non speculando su principi, religiosi più o meno.
21.03.18

Gesù consola

Gesù consola
Di fronte a ogni “Consolazione della filosofia” di Boezio e dei milioni di filosofi e teologi, Gesù porta, concretamente la consolazione della preghiera, della fiducia nel Padre, della soavità dello Spirito Santo.
Certe consolazioni possono acquietare la mente, se sono “spiegazioni” più o meno indovinate dalla psicologia, o dalle canne fumate, però il cuore nella sua pienezza profonda (esistenza) è confortato solo da Colui, che ha costruito il cuore stesso.
Rimane sempre indicativa la celebre frase di S. Agostino: “Il cuore l’hai fatto in tensione verso di te, e resta sempre inquieto fino a che non approda in te, dove si trova quiete”.
È certo che se incontriamo una persona che sinceramente ci ama per ciò che siamo, e che noi possiamo amare per ciò che ella è (amare, essere amati, riamare) la nostra vita trova un porto tranquillo. Tuttavia rimane sempre qualche cosa di incompleto in quell’amore, fino a che i due non convivano nel profondo del cuore, un amore a Dio, intensamente condiviso. Ogni amore umano, del singolo o della coppia, trova completezza nell’amore di Dio.
È opportuno ammettere che tutta la filosofia studiata e anche condivisa, non riesce a tranquillizzare, perché dentro di noi riemerge quel “Ma sarà proprio vero?”. O tutte le offerte di felicità urlate dalla pubblicità, riescono a riempirci di felicità, oppure a vuotarci le tasche?
Ma quando la realtà di Dio mi si accosta, mi presenta Gesù risorto e, con lui, la speranza “della gloria”, allora si inizia la felicità.
21.03.18

I precetti di Dio

I precetti di Dio
Aggrapparsi ai valori o ai “precetti”? a ciò che l’uomo (ognuno) stima valido, oppure a ciò che Dio “comanda” come vero?
Serve avere a portata di mano un fantomatico mondo dei valori, che ogni persona forgia a modo proprio? Per il ladro non è valore il non rubare, ma la scaltrezza di non farsi pizzicare. Fa comodo, ma alla fine non genera felicità, ma soltanto un genere di autocompiacimento.
Poi interviene Dio, il totalmente buono, perché si identifica con l’Amore. Da questo Amore sgorgano le esigenze d’Amore, che arrivano a noi come comandamenti. Ossia indicazioni precise per non perdere l’Amore, per rimanere in esso. Le esigenze dell’Amore sono perfette, e lo Spirito di Dio affina la nostra sensibilità perché siamo in grado di distinguere tra le esigenze dell’Amore di Dio e i comandi degli uomini. Il massimo che gli uomini possano indicarci di positivo, è il mondo dei valori: ce lo indicano, sì e no data la società non del tutto innocente, e poi ti dice: “Adesso ti arrangi!”. Dio mi presenta il suo Amore nella persona concreta di Gesù. Poi non dice “Ti arrangi”, ma ci imprime la forza dello Spirito Santo, non solo per “seguire” Gesù, sebbene per vivere di Lui, Amore e Energia di Dio!
L’uomo nel suo “mondo dei valori” ci mette dentro tutto, virtù e difetti, passioni e piaceri, cioè quanto gli è comodo. Dio nel suo Cristo include l’Amore, la purezza, la beatitudine.
31.03.18