Al principio il Logos

Al principio il Logos
Il Vangelo di Matteo narra la chiamata di Pietro e di Andrea, da parte di Gesù. Erano questi due in barca a rassettar le reti. Gesù li invita, e – a quanto si legge – essi partono difilato, abbandonando padre e reti.
Tutto così all’improvviso?
Eppure nei Vangeli c’è un precedente. Quel precedente narrato dal Vangelo di Giovanni, dove si narra di un incontro significativo tra Andrea, ex discepolo di Giovanni Battista, e Gesù, indicato ad Andrea proprio dal Battista.
Per comprendere Matteo, è necessario ricordarsi di Giovanni.
Giovanni stesso, prima di “narrare” di Gesù, presenta una premessa che deve essere ricordata prima di tutti e di ciascun racconto dello stesso Giovanni. Premessa: il Logos divino, e il Logos divenuto carne. È una premessa che illumina ogni pagina dei quattro Vangeli, e che ci pone in relazione esistenziale con essi.
Purtroppo spesso si dice che l’inizio del vangelo di Giovanni è una semplice riflessione teologica dell’evangelista. Non è riflessione, è ripresentazione di una realtà, in base alla quale ogni sillaba dei Vangeli non solo è illuminata e compresa, ma anche accolta e “digerita”.
La premessa del Logos eterno e del Logos divenuto carne, ci aiuta a scorrere con occhi adatti la vita, le opere e gli insegnamenti (ossia la verità divenuta parola, carne, azione) di Gesù.
29.11.18

Fede che salva

Fede che salva
La tua fede ti ha guarito. Ho udito tale frase, desunta dal Vangelo, per indicare non la fede cristiana, ma la credenza personale o addirittura l’illusione fantastica di qualcosa che dovrebbe avvenire, come, per esempio, una guarigione.
Gesù parla della vera fede cristiana, una fede che è interpersonale. Io credo che la tua (di Gesù) possa far questo. È fiducia nella persona di Gesù, che ha il potere di operare cose divine.
La declassazione della fede a mera credenza, non produce il frutto divino. L’assertività non è fede, ma semplice autoconvincimento, che potrebbe introdurre nell’illusione. Che l’indirizzare il proprio cervello verso un oggetto, può produrre effetti (gli effetti della cosiddetta “mente felice”) è assodato nella pratica. Però questa non è fede di per sé. Può entrare nella regione della fede, se è accompagnata dalla fiducia in Gesù che salva, oppure che può salvare anche servendosi della dinamica del cervello felice.
La fede essenzialmente è fidarsi di Dio. Quel Dio, che può operare anche attivando le possibilità e le facoltà da lui stesso create. Ma questo è compito e facoltà di Dio.
La fede in Dio, in Gesù, che porta a salvezza, se salvezza cerchiamo anche attraverso i sacramenti, produce sempre l’effetto desiderato. Essa rientra in quel consolante “chiedete e riceverete”. Perché in questa situazione è il chiedere lo “Spirito”, colui che è posto da sempre a nostra disposizione.
L’oggetto della fede cristiana non è un cercare un oggetto vagante, da infilzare per catturarlo, ma è la stessa persona di Dio, di Gesù.
03.04.18

Gioia inusitata, reale

Gioia inusitata, reale
Il vivere ci dona gioia. Il vivere, pensando, amando, divertendoci, mangiando, dormendo, lavorando. Nulla può pagare la gioia del dono della vita, nell’età e nelle condizioni, nelle quali, per dono di Dio e per l’affetto di chi ci è vicino, noi ci troviamo.
Inoltre, almeno talvolta, sperimentiamo una gioia maggiore, quando ci scopriamo di essere figli di Dio, compartecipi della vita di Gesù.
Quelle rare volte che accogliamo lo stimolo dello Spirito Santo, che ci persuade di fermarci un po’ per cogliere il nostro essere tuffati nel Padre, e il suo penetrare in noi (come? Lo sa lui, e questo è tutto!), allora sentiamo come un distenderci nella vita in una situazione indicibile, commovente, tranquillizzante. Cogliamo la nostra realtà di essere figli di Dio, fratelli di Gesù, come ci assicura la fede.
Sentiamo che ogni nostra azione, ogni nostro respiro cambiano colore e suono. Non si sa come, ma si sa che avviene. La fede nella persona di Gesù, presente nel Padre, nel Vangelo, nell’Eucarestia, ci ha preparato a questa gioia. Solo la fede in Lui. Non la fede in noi, nelle nostre capacità di sentire o di pregare. La fede, che può perfino iniziarsi con uno sforzo, ma che, o prima o poi, ci fa volare. Una fede in ogni azione dello Spirito di Dio in noi, quasi a cominciare dal nostro chiedere misericordia. Misericordia sia per le mancanze e per i peccati, dei quali siamo consapevoli, sia per le innumerevoli storture egoistiche, che lentamente, giorno per giorno, stiamo scoprendo. Ormai siamo così vicini a Dio che il nostro peccato non ci umilia, ma ci colma di riconoscenza al Padre, il quale, appena gli abbiamo confidato le nostre storture, ci abbraccia nella gioia! Gioia di vivere Dio!
04.04.18

Il rifiuto del Padre

Il rifiuto del Padre
Fino a che non ci convertiremo cristianamente ed evangelicamente dal Dio giudice al Dio Padre, il nostro cuore non potrà mai gioire in Dio. Il Giudice è incapace di creare gioia, tranne in alcuni casi. Il Padre è gioia perenne, perché è amore e misericordia.
Poveri quei figli, e poi i figli dei figli, che non hanno gustato la bellezza e la dolcezza di un padre. Cioè i cosiddetti padri, che sono solo genitori e mariti, ma non sono disponibili a produrre la serenità e la contentezza nei figli. E questi spesso si precludono anche la possibilità di convertirsi a Dio Padre.
La durezza, che può anche armarsi di osservanza della legge, non serve a produrre nei figli la leggerezza della confidenza, nella quale si trasmette l’interiorità tra padre e figli.
Non è raro il caso di chi non sopporta, tra i cristiani, il sottomettersi nel timore a un giudice-Dio, e questa situazione fa uscire dalla comunità cristiana. Se non con l’abiura, almeno con la sopportazione passiva di una morale e di un culto.
Perché c’è il rifiuto di convertirsi a un Padre buono, per restare incatenati a un giudice freddo? È la stessa paura di chi rifiuta di imparare ad andare in bicicletta, solo perché questa si muove. L’incapacità e il rifiuto di sciogliersi. Di lasciarsi andare, perché si teme di perdere una stabilità rigida, che ispira una certa sicurezza. Evidentemente si tratta di una sicurezza formale, contraria a un abbandono fiducioso, ed “esilarante”.
24.11.18

Cacciata e opportunità

Cacciata e opportunità
Gli Atti degli Apostoli, che sono sempre parola di Dio a conforto dei credenti, narrano la dispersione dei credenti in Gesù, dopo l’assassinio di Stefano.
Sottolineano un effetto buono dentro una situazione molto incresciosa. I primi cristiani scappavano anche dalla perfidia persecutrice di Saulo. Questi era un persecutore dei figli di Dio credenti in Gesù, spinto dal proprio ardore religioso. Quanti danni in nome di una religione fondamentalistica!
Questi cristiani scappati diffondevano il messaggio di Gesù, accogliendo l’occasione offerta da una situazione inedita, o almeno non consueta.
Oggi si direbbe che non tutti i mali vengono per nuocere. Quei credenti erano scappati da Gerusalemme, il centro della religiosità, quindi un centro riconosciuto e frequentato di spiritualità. Però la vera spiritualità la portavano con se stessi. Il luogo forzosamente abbandonato non li privava della fede, dell’opportunità di vivere Gesù, parola e presenza.
L’essere cacciati non li privava di Gesù. Anzi aumentava in loro quella presenza di Gesù, che si solidifica durante l’annuncio. In ogni luogo ci incontriamo con Dio e in una nuova opportunità di vivere il suo amore.
Nella dispersione gli Ebrei antichi, dopo la distruzione di Gerusalemme, erano stati invitati dal profeta a vivere l’esilio come una opportunità per aiutare la fede del popolo in cui erano dispersi. I primi cristiani ebrei ebbero la stessa opportunità: però il loro ritorno non era Gerusalemme, ma l’entrata nella Gloria di Gesù.
18.04.18

Amore e culto

Amore e culto
Gesù afferma di sé: Voglio misericordia, non sacrificio. E spiega: “Non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9, 13).
Voglio misericordia, non olocausto: è frase che, in qualche modo, richiama le parole del profeta Osea: “Io voglio l’amore, non il sacrificio”. E poi sembra chiarire: “La conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6, 6).
Sembra però che siano diversi i due contesti, nei quali è pronunciata la stessa frase. Gesù parla della misericordia e dell’amore verso i peccatori. Osea invece parla dell’atteggiamento verso Dio. La “conoscenza” di Dio, ossia l’esperienza di amore verso Dio.
Nei due casi si esalta non il comportamento religioso, ma il sentimento dei due rapporti, quello che ritroviamo nel doppio comandamento: amare Dio e amare il prossimo. Sia nei riguardi di Dio, sia nei riguardi del prossimo vi è la preminenza dell’”eleos”, ossia dell’amore, che diversamente si atteggia, quando è rivolto a Dio e quando è rivolto al prossimo.
L’amore e la carità sono preferiti al culto. Ma il culto è escluso, oppure è soltanto collocato in secondo piano?
La risposta più chiara la troviamo nella prima lettera di Giovanni, dove i due amori (Dio e il prossimo) si rimandano l’uno all’altro. Una quasi oscura simbiosi. Sono le due facce dello stesso sentimento: La “cura” del prossimo, e la “cura” di Dio, che all’occorrenza diventano terapia e culto. Nell’uno e nell’altro caso, amore che “agisce”. Preghiera (eleos verso il Padre) e solidarietà (eleos verso il prossimo).
10.01.19

Solo Gesù principale

Solo Gesù principale
Leggevo stamani una pagina di Giovanni della Croce, su l’assolutezza nuova di Gesù, dopo il superamento delle grandi incompletezze dell’Antico Testamento. Mi sono sentito subito in sintonia con il santo carmelitano, io di provenienza francescana. Come si vede, Gesù è davvero unico e tutto.
Entusiasta di questa consonanza nello stesso Gesù, ne parlai con una persona, credendo di trovare rispondenza, ma di colpo il discorso scivolò su: “Ma la Chiesa…”. E giù critiche ed esaltazione delle varie devozioni pie. Il ricorso alle devozioni, per oscurare Gesù, il Sole!
Gesù, lo sappiamo, è la “semplificazione” del Dio, come talvolta ci viene ricordato dalla Bibbia. Gesù è la semplificazione di ogni percorso religioso o pio. “Io sono la via!”. Questa non è una battuta, ma la realtà. Percorrere Gesù è arrivare al Padre. “Nessuno raggiunge il Padre, se non attraverso me”.
La Chiesa dovrebbe essere quasi una ulteriore “semplificazione di Gesù”. Basti pensare alla semplificazione di Gesù nell’Eucarestia. Da persona a cibo.
La Chiesa non è una struttura autonoma, che trasmette anche Gesù, assieme a precetti, devozioni, invenzioni. Essa è solo la “mia” chiesa, quella di cui Gesù si serve, come strada più semplice e più accostabile. Quando scambiamo la “sua Chiesa” con un’azienda di riti, di comandi, di personaggi, allora ci sfugge la chiesa come semplificazione di Gesù, come il tragitto più breve e più gioioso verso Gesù. Non è l’unico tragitto, ma decisamente il più sicuro, se vivo solo di Gesù, senza cedevolezza verso un ente culturale o simile.
10.12.18