Convertirci alla gioia

Convertirci alla gioia
Non ho incontrato delle persone, le quali mi recavano una bella notizia, che non me l’avessero comunicata senza sorridere.
Il sorriso è l’atteggiamento più consono a chi sa di fare un piacere.
Poi assisto all’annuncio della più bella notizia di sempre, recata da persone con il muso lungo, con voce monotona, quasi con il dispetto di essere costrette ad annunciare. È triste, perché la più bella notizia del mondo è quella che Gesù è risorto e che ci vuol tutti felici e salvi. Non per nulla quella bella notizia già da sempre si chiama “Vangelo”, ossia bella (greco: eu) notizia (greco: anghelion).
Quanto io stesso ho sprecato il tempo dell’annuncio della gioia, entrando più nelle elucubrazioni teologiche, che non nel calore di una gioia totale! Però i limiti ci avvolgono e, mentre cerchiamo di toglierci dalla prigionia della tristezza, dobbiamo implorare la gioia, quella gioia di Dio, che diviene contagiosa.
Il Vangelo è spesso posto in relazione con il peccato, con l’impegno, con la pietà, ecc. Difficilmente si trova trattato in relazione alla gioia. Eppure il suo nome stesso richiama subito la gioia.
Ricordo che un anno passato, indicavo come sforzo di “penitenza quaresimale” quello di “convertirci alla gioia”. Non una gioia facile, che si esaurisce in una risata all’ascolto di una gag, ma la gioia che penetra il cuore, il quale s’accende di serenità riconoscente per quel dono impensabile di Dio, che è Gesù.
Ogni giorno ci assale la tentazione della tristezza, soprattutto nei momenti critici della nostra esistenza; ogni giorno rinnoviamo la conversione alla gioia.
20.06.17

Nelle tue mani

Nelle tue mani
Come viviamo, interpretandolo, quel ”abiteremo in voi”? Accogliere il Padre e Gesù è il farli abitare in noi. Noi siamo i contenitori di Dio? Oppure “voi in me e io in voi”? Che cosa è questo “in”?
L’Eucarestia ce lo fa intuire. Il legame stretto è la comunione di persone, è la presenza nostra in Gesù, e la presenza di Gesù in noi. Paolo: vivo io, ma non più io, vive Cristo in me. Che cos’è questo Cristo in noi? Un prigioniero o un Dio libero di introdursi a piacimento nella sua creatura, e poi trasformare in opere divine, le opere compiute dalla creatura “in mio nome”, ossia con la mia stessa persona?
Ungaretti nel parlare, con dolore, della morte del figlio, s’accorge che il suo pianto non è più suo, ma il pianto di Gesù in lui.
Ecco: il nostro soffrire, si trasforma nel suo soffrire in noi. Ecco la radice del valore eterno del nostro pianto. La conseguenza è di non inquinare questo pianto con la vendetta o con la bestemmia. Il semplice pianto umano, è l’umanità di Gesù, sempre presente nelle vicende umane, che si esprime nel Padre e negli uomini.
Se questa realtà non cancella la sofferenza, le dona però una prospettiva nuova, diversa, valida. Nel soffrire, se ci abbandoniamo in Gesù, egli entra nel nostro pianto e piange con noi e in noi. Questo non è uno psicofarmaco, ma una elevazione del cuore a Dio. Anche nel pieno della crocifissione si può esclamare, con il cuore schiacciato: “Nelle tue mani affido la mia vita”.
Gesù, quando ha potuto, ha alleviato ogni sofferenza, ma non ha risparmiato agli apostoli la sofferenza della sua scomparsa, almeno fino alla situazione eucaristica..
21.06.17

Nelle tue mani

Nelle tue mani
Come viviamo, interpretandolo, quel ”abiteremo in voi”? Accogliere il Padre e Gesù è il farli abitare in noi. Noi siamo i contenitori di Dio? Oppure “voi in me e io in voi”? Che cosa è questo “in”?
L’Eucarestia ce lo fa intuire. Il legame stretto è la comunione di persone, è la presenza nostra in Gesù, e la presenza di Gesù in noi. Paolo: vivo io, ma non più io, vive Cristo in me. Che cos’è questo Cristo in noi? Un prigioniero o un Dio libero di introdursi a piacimento nella sua creatura, e poi trasformare in opere divine, le opere compiute dalla creatura “in mio nome”, ossia con la mia stessa persona?
Ungaretti nel parlare, con dolore, della morte del figlio, s’accorge che il suo pianto non è più suo, ma il pianto di Gesù in lui.
Ecco: il nostro soffrire, si trasforma nel suo soffrire in noi. Ecco la radice del valore eterno del nostro pianto. La conseguenza è di non inquinare questo pianto con la vendetta o con la bestemmia. Il semplice pianto umano, è l’umanità di Gesù, sempre presente nelle vicende umane, che si esprime nel Padre e negli uomini.
Se questa realtà non cancella la sofferenza, le dona però una prospettiva nuova, diversa, valida. Nel soffrire, se ci abbandoniamo in Gesù, egli entra nel nostro pianto e piange con noi e in noi. Questo non è uno psicofarmaco, ma una elevazione del cuore a Dio. Anche nel pieno della crocifissione si può esclamare, con il cuore schiacciato: “Nelle tue mani affido la mia vita”.
Gesù, quando ha potuto, ha alleviato ogni sofferenza, ma non ha risparmiato agli apostoli la sofferenza della sua scomparsa, almeno fino alla situazione eucaristica..
21.06.17

Oltre il parsismo

Oltre il parsismo
Resta ancora tra di noi, la vecchia religione persiana. Non ce ne accorgiamo, ma la “pratichiamo” baipassando semplicemente il Vangelo e probabilmente l’Antico Testamento autentico.
Agli Ebrei, a Quram, e ai credenti in Gesù, è passata l’idea che la salvezza dipenda dalle buone opere “che io devo e voglio fare”. È l’idea contrattuale con un dio, che giudica in base alla bilancia. Per nulla affatto che le buone opere debbano essere scartate, per lasciar fare tutto a Dio (Quietismo), ma che la salvezza è opera di Dio, e le nostre “opere buone” sono il segno e la conseguenza del nostro aver accettato la salvezza di Dio, e del nostro “tenerla cara”.
Sotto un certo aspetto si può dire che la salvezza di Dio possiamo perderla, ma non acquistarla. Le “opere buone” sono conseguenza della grazia, ossia “frutti dello Spirito Santo”, donatoci dal Padre fin dalla nascita e confermato nel battesimo, perché chi crederà e sarà battezzato sarà salvo. La fede, che è frutto dello Spirito Santo, precede lo stesso battesimo.
I due principi trascendentali del bene e del male sono talmente entrati nel nostro immaginario, che spesso si personificano. In realtà il principio assoluto è uno solo: il Bene, Dio. Il male non è da Dio, ma da quella parte dell’uomo, che è la sua finitezza costitutiva. Dio creando “ad extra” non creò un altro dio, ma una creatura, e, in quanto creatura, non infinita, con tutte le conseguenze limitatrici della non-infinità.
A rimedio e a esaltazione della povertà essenziale della creatura, Dio comunica il suo Spirito, per immettere nella creatura l’energia perché questa si mantenga in relazione con Dio.
03.06.17

Prendete e mangiate

Prendete e mangiate
Gesù adopera un linguaggio cannibalesco: “Mangia la mia carne”. Il testo non alleggerisce l’espressione, anzi la ripete.
Sì, carne è la condizione umana povera e limitata, di fronte alla quale si trova lo “Spirito”, la condizione perfetta, che è “in Dio” e che Dio partecipa all’uomo che crede.
Il progetto di Dio è che Gesù sia carne per attuare la volontà del Padre, che lui attua sempre.
Tutto ciò non toglie l’asprezza della stessa frase, che si incentra sul mangiare. Dice “mangiare”, non accettare solamente, ma assimilare per vivere. Chi mangia la carne di Gesù ha la vita eterna.
Lo Spirito di Dio, donato da Gesù, si trasferisce nell’uomo, mediante la sua carne mangiata. Nella frase di Gesù si può notare un bisogno di intimità inscindibile, dato che la carne, entrata come cibo, si disintegra per essere assorbita.
Gesù, alla fine della vita costruisce il senso del dono di sé, e la nuova inedita modalità del dono: questo è il mio corpo: e indica il pane. Così rende possibile il mangiare di lui. Questo è il mio corpo dato a voi. Un corpo che non solo accompagna, ma penetra. Lo specifica anche Paolo, nello scrivere ai santi di Corinto. Un corpo consegnato ai suoi, non un corpo tolto, un corpo sottratto, ma un corpo donato, donato appunto in modo non restituibile, ma dato a fondo perso, ossia mangiato.
Il senso cannibalistico della frase, si trasforma in un dono permanente, non ricuperabile.
19.06.17

La partecipazione con Gesù

Partecipazione con Gesù
Oggi sarai con me nel Paradiso. Due sofferenti si incontrano, nella loro sofferenza mortale. I due si capiscono, e nella sofferenza finale insopportabile, si comunicano l’un l’altro con il cuore in mano. Uno nel cuore sente di aver bisogno dell’altro e confida la propria povertà, il proprio bisogno di comprensione e di pace: parla con il cuore, con i sentimenti di un afflitto: “Signore, ricordati di me, quando sarai nel tuo Regno”. Non è una frase nata all’ultimo momento. Probabilmente aveva udito Gesù, quando questi parlava del Regno di Dio. Forse aveva interpretato male le esigenze di “quel” regno, e lo vedeva come il nuovo regno Israele, riscattato dai Romani, e si dava da fare, buon patriota, per realizzare questo regno con la sommossa, e perciò, catturato dai Romani, fu condannato a morte. Forse era un “manigoldo pulito”.
L’altro dona a lui, così vicino nella stessa sofferenza, quanto il suo cuore suggeriva. Un cuore abituato a donare sempre. E il dono è la sicurezza di una partecipazione! Con me! Ecco il guadagno di una partecipazione nel dolore: la partecipazione nella serenità e e nella gloria.
Ecco perché ci indicano di “offrire a Gesù” le nostre sofferenze, quelle causate dalla natura oppure dagli uomini. Non si tratta del semplice bene di offrire le sofferenze (questo sa molto di mercato), ma di partecipare, con le nostre sofferenze, alla Croce di Gesù. Metterci nella stessa sofferenza di Gesù, e in Gesù parlare con il Padre sempre benevolo: “Nelle tue mani…”. E il Padre benevolo non tarda a rasserenarci.
15.07.17

Idolatria come antiamore

Idolatria, come antiamore
La carità salva. La carità di Dio verso di noi, la carità nostra tra di noi. Dio ci ha amati, anche noi siamo invitati ad amare. Ebbene, come conseguenza, tutto ciò che sta fuori dell’amore, sta fuori di Dio.
È così semplice e netta la parola di Dio! Ciò che è fuori dell’amore (di più: se è contraria all’amore), diventa anti-Dio, ossia idolatria. Quando attribuiamo più valore a quanto esula dall’amore, purtroppo rinneghiamo la vera traiettoria che conduce al Padre, in Gesù.
Sto costatando, in questi frangenti che sto incontrando, di quanto sia comune l’idolatria tra le persone, che si reputano credenti. Per esse molte altre azioni si oppongono all’amore. Ho accostato un gruppettino di devoti, i quali esaltano tanto i valori della povertà e dell’obbedienza, i quali feriscono la carità. Un gruppo che si proclama francescano, ha esaltato tanto il valore della povertà, da escludere la presenza di altri nei molti (inutili) locali della loro dimora. Questa è pura idolatria, ma non se ne accorgono.
Altri vogliono salvare oggetti di valore, senza badare se la sottrazione di certi oggetti favorisce la tristezza, ma non la carità. Il primo sentimento della carità si chiede: “Quest’oggetto ha avuto per movente l’aiutare l’apostolato dei frati, non la loro opera a favore del prossimo (=carità). L’avidità così patente nel “salvare” le cose (impossessandosene) aiuta la carità?”.
Io scrivo per aiutare l’amore o per sfogare i miei risentimenti? Scrivo perché quella carità, che si annida nella verità, serve alla pace con gli altri? Insomma mi trovo a ogni passo, a uscire dalla traiettoria dell’amore.
29.06.17

Vita precaria o donata?

Vita precaria o donata?
Sì, la nostra vita è un “prestito” da Dio: ci vien data, ci vien tolta. Eppure questo non siamo tutto noi stessi. Siamo sempre presso Dio, il quale ci dona la vita, e poi ci dona la risurrezione. Sembra che prima della vita e prima della risurrezione, Dio ci doni l’essere noi, davanti a lui.
Qualche cosa di analogo ci viene suggerito dalla Genesi. Dio all’inizio crea la luce, poi dopo crea il sole. Per noi la luce è quella del sole, o degli astri. Non conosciamo altra luce. Eppure c’è un’altra luce (quale?), dopo la quale arriva il sole.
Sembra che così avvenga (come?) di noi: la vita viene data: a chi? La risurrezione è data: a chi? A noi? Allora noi iniziamo con la vita, ossia siamo la vita? Se noi siamo la vita, con la nostra morte non siamo soltanto privati della vita, ma cessiamo di essere noi.
Ma contro questo annullamento (sebbene anche l’annullamento è, esiste: ma come?), ecco in Gesù, e per lui a noi, la Risurrezione. Lui ha affermato: “Io sono la Risurrezione e la vita”: Una vita, che attende la risurrezione, e una vita che, grazie all’opera dello Spirito, diventa risurrezione.
Comunque il problema si rigiri e la riflessione si spinga, resta sempre la luminosa certezza che siamo nelle mani di Dio, di quel Dio, che è e che fa essere. Il nostro riflettere si confonde, forse si estingue nel tuffarsi solamente in Dio. La fiducia, figlia dell’amore che si abbandona, è un ulteriore dono di Dio, nello Spirito.
14.01.2016

Gesù è nostro: affidiamoci

Gesù è nostro: affidiamoci
Gesù è affidabile, perché è garantito. Lui afferma che è garantito dal Padre ed è garantito da se stesso.
Dal Padre, perché chi vede Gesù vede il Padre.
Da se stesso, sia perché profeta e voce del Padre, sia perché garantiscono per lui “le opere che io compio”. Fidatevi sempre, fidatevi delle opere, se non vi fidate della mia testimonianza.
Gesù esige la fiducia, ossia la fede. Tuttavia, quando si entra nella sua cerchia, tramite la fede, Gesù richiede un’altra fiducia, quella più personale: Pietro, tu mi ami? L’amore è più della rassicurazione, è l’atmosfera dell’abbandono, della confidenza, che sgorga spontaneamente dalla fiducia. Mi confido, proprio perché mi fido: del mio amico, del mio confratello, del mio medico, del mio psicologo. Mi confido nell’esaltazione e nella depressione, nei successi e negli insuccessi.
La confidenza, per attuarsi, richiede parità. Quella parità che non è facilitata dall’ansia.
La Scrittura ci indica la vera parità: gioire con chi gioisce, piangere con chi piange. Purtroppo è più facile trovare, quando piangiamo, chi con noi piange. Il consolare gli afflitti, è ben diverso del piangere con chi piange. Il consolare si situa su due piani: il superiore è occupato da chi consola, l’inferiore da chi è consolato: uno largisce, l’altro riceve. Il piangere con chi piange, unisce i due sullo stesso piano.
Perfino Gesù, per piangere con chi piange, il Padre lo ha fatto “peccato” con noi, come dice S. Paolo. È un vero piangere con chi piange, accogliere l’esperienza del peccato con chi pecca. Poi può venire – e viene spontaneamente – l’aiuto, la consolazione, l’esortazione, e ogni azione e ogni sentimento, che fa sgorgare dal cuore, l’umanità, irrorata di Spirito Santo.
02.06.17

Il silenzio amoroso

Il silenzio amoroso
È bene essere pronti nel silenzio ad attendere la salvezza di Dio (Bibbia). Il cuore parla molto, quando la lingua tace. La lingua esprime la sofferenza, il cuore la vive. Colui che scruta i cuori, conosce il nostro affanno, come conosce la verità della nostra gioia.
Perciò Gesù ci invita a pregare in camera nostra dopo aver chiuso la porta. Quindi è bene portare in casa la preghiera iniziata in chiesa. Rendere continua l’Eucarestia quotidiana, inserendola nelle pieghe della quotidianità, spalmandola lungo le nostre ore.
Il silenzio anche nell’esprimere le nostre sofferenze. Silenzio non per non vederle, ma per guardarle alla luce di Dio, ossia di nostro Padre. Quello che appiana i nostri debiti, soprattutto quelli dovuti alla nostra cattiveria, esplicita o sottintesa.
Certamente nel silenzio si elabora il dolore. I tre amici venuti a consolare il povero Giobbe, parlando aumentavano la sua pena. L’elaborazione silenziosa del dolore, spinge a trovare soluzioni di conforto, che i consolatori non possono offrire. Infatti i motivi di consolazione vera stanno nel nostro cuore, dove lo Spirito agisce. Anche le parole più dolci che ci arrivano dall’esterno non individuano né i motivi, e nemmeno il tempo, del nostro essere confortati.
Il silenzio è medicina da offrire a chi soffre. Un silenzio amoroso e tranquillo, non dettato dall’ansia del “non saper che cosa fare”, ma dal bisogno di rispettare la sofferenza dell’altro e di “adorarla” in Gesù, sofferente in chi soffre.
Un silenzio che sa attendere la salvezza.
12.06.17