Dio ama chi dona con gioia

Dio ama chi dona con gioia
Leggiamo in Luca: “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (a vostro favore). È un dono, ma anche il piacere di rimanere in compagnia dei suoi.
Non riesco a capire bene, perché nel formulario chiesastico è subentrata un’intersezione. Il Vangelo scrive: “che è dato per voi”. Il formulario aggiunge: “che è dato in sacrificio per voi”.
Forse richiamando una frase evangelica, dove si parla del dono di Dio, troviamo scritto: “Non temere, piccolo gregge, poiché al Padre è piaciuto di darvi il suo regno” (Lc 12, 32). Ancora una volta troviamo l’eudokia (eudokesen). Il Padre prova il piacere di donare il “regno” (ossia Gesù stesso), e Gesù patisce nel donarsi ai suoi?
Di solito io vedo il sorriso nelle persone che mi presentano un dono, dono cioè gratuità felice. Il caso in cui si dà qualcosa agli altri, contro la propria volontà, si è tristi. Proprio come accade a quei bambini, che vorrebbero mangiarsi un dolce, e ai quali la mamma impone: “Danne anche al tuo fratellino!”. Gesù quindi ci donerebbe se stesso da imbronciato?
“Io ho dato a loro [ai discepoli] la gloria che tu mi hai dato, perché siano come noi siamo uno” (Gv 17, 22). La gloria! Lo splendore della divinità la presenza affettuosa e rassicurante del Padre: “Il Padre è sempre con me” (Gv 8, 16).
Le prospettive, interne ai fedeli sono due: la messa, come sacrificio; oppure la messa, come il momento nel quale Dio, nella sua naturale generosità, vuole regalarci la sua Parola e il suo Figlio, l’oggetto delle compiacenze.
01.03.18

Gioia del ringraziare

Goia del ringraziare
Noi, credenti in Gesù, siamo abituati a fare Eucarestia, ossia a vivere la nostra vita e il nostro “culto” come ringraziamento. Eucarestia appunto significa rendere grazie, ringraziare. Rendere ossia ridare ciò che si è ricevuto. Il Padre ci dona la sua grazia, che si concentra nel dono di Gesù, e noi, consci di aver ricevuto questo dono indicibile, restituiamo la grazia. Una restituzione non solo a parole con il sentimento, ma una restituzione di pari valore. Gesù donato, lo ridoniamo al Padre, tramite l’Eucarestia e il nostro coinvolgimento con Gesù Eucarestia, mediante la ricezione del pane e del vino santificati dallo Spirito.
Abituati fin da piccoli ad andare a messa, per ricevere la comunione, è stato cancellato in noi il senso dell’Eucarestia come efficace ringraziamento.
Andare a messa per ringraziare, essere la messa, per presenza effettiva, per esprimere il ringraziamento.
Ringraziare perché? Come mai andare a messa per ringraziare soprattutto, se ancora il vocabolo eucarestia mantiene un senso?
Essere partecipi alla Messa, purificandoci perché il nostro ringraziamento riesca più gradito (confiteor). Poi riflettere e accogliere la Parola di Dio, per scoprire il valore del dono, per il quale siamo ringraziamento. Quindi offrirci, tramite l’offerta di pane e di vino, perché il Padre ripresenti il Figlio, reale, a noi, per essere coinvolti con il Figlio nell’essere ringraziamento valido, di validità infinita, divina. Alla fine lasciarci “invadere” da Gesù, mentre lo assimiliamo, e così concretare il nostro ringraziamento, non più solo nostro, ma riempito dallo Spirito del Padre, penetrato in noi dal Figlio.
L’andare a Messa non è un obbligo, né consuetudine, ma gioia che riconosce il dono di Dio.
08.03.18

Salvezza e gioia

Salvezza e gioia
Le occasioni non cercate!
Io sto passando un periodo, nel quale mi ride dentro la frase: “La gioia della salvezza”. So che i pochi scritti in proposito saranno pubblicati tra qualche giorno, grazie all’interessamento di una mia collega.
Proprio dieci giorni fa, dopo che io avevo stilato le mie riflessioni sulla gioia della salvezza, il p. Giovanni, mio provinciale religioso, pubblica una circolare sulla gioia. Ieri leggo un documento della Congregazione Romana, un lungo documento riguardante la salvezza.
Io, per caso o provvidenzialmente, mi sono trovato in mezzo ai documenti collegando gioia e salvezza, meditando appunto sulla “Gioia della salvezza”.
C’è nell’aria qualche cosa che circola e che esige gioia e salvezza, affinché Chiesa e mondo si sveglino con una profonda necessità di gioire, tra le tenebre di guerre, di vizi, di corruzione, a causa di qualcuno che “faccia alzare la testa per vedere la salvezza” come ci avverte Gesù, quando descrive le catastrofi che natura e uomini perpetrano.
C’è nell’aria e nel cuore dei puri di cuore, una necessità di ossigeno e di luce, in un mondo sempre più mefitico per l’ISIS e per il soffocamento dei poveri causato dai ricchi, che si vantano di avere in mano il novanta per cento delle ricchezze.
Alzate il capo! Più che inventare partiti e partitini, che vantano la presunzione di salvare il mondo; più che inventare nuove armi nucleari, noi, credenti, sappiamo dove guardare.
03.03.18

In Gesù il gusto del piacere

In Gesù il gusto del piacere
Per non contrapporre il piacere al dono che Dio fa di se stesso all’uomo, principalmente in Gesù, è bello scoprire come Gesù assaporava il piacere. In lui ogni piacere esisteva e si sublimava in Dio.
Assumere ogni piacere in Gesù è uguale a vivere Gesù che non disprezza il piacere, sebbene una certa spiritualità, presente tra i cristiani affermava che “tutta la vita di Gesù fu croce e martirio”. Eppure Gesù era un buon mangiatore, tanto che i suoi avversari lo trattavano da mangione e beone. Eppure non disdegnava di banchettare con i colleghi di Matteo e con i farisei, con gli amici di Betania. Soprattutto la vigilia della sua morte dichiarò: “Ho desiderato intensamente di mangiare questa Pasqua con voi, prima di partire” (Lc 22, 15).
Dentro il piacere della tavola, spesso inseriva l’avvertimento al fariseo, oppure il perdono alla peccatrice, il dialogo con Maria la sorella di Marta, l’Eucarestia nell’ultima cena. A proposito: non so se tutti quelli che ammirano l’ultima cena di Leonardo, sostino a riflettere sul mistero e dono dell’Eucarestia.
A Gesù piaceva il contatto con i bambini, l’appartarsi a riposare con i discepoli, l’ammirare le messi (alla quale ammirazione esortava i suoi). Gesù godeva nel pregare. La sue parabole, di solito, avevano un esito felice: “e cominciarono a far festa” (Lc 15, 24); “fate festa con me” (Lc 15,9, 15,6), oppure un pressante avvertimento a non farsi del male.
E la gioia espressa desiderava fiorita nel suoi: “Risplenda la vostra luce” (Mt 5, 16).
Non capisco proprio perché, ma la maggior parte delle “Vite di Cristo” difficilmente mostrano un Gesù, che sappia gustare il piacere di vivere. Perché?
27.02.18

Trasmettere

Trasmettere
Io trasmetto o insegno? Se insegno, ricordo che uno solo è il Maestro?
Come cristiano, in ciò che riguarda il mio rapporto con Gesù e con il Padre, io non posso insegnare nulla. Gesù solo è il Maestro: io un discepolo che trasmette la lezione avuta dal Maestro, il “Vangelo”. Mi è lecito ovviamente aggiungere qualche mia riflessione, ma ciò non è una lezione, perché l’unico Maestro è Gesù, e soltanto i piccoli lo capiscono. Se uno si erge a maestro non è più piccolo e corre il rischio di tradire la verità. Questo è il destino delle eresie, di ogni eresia, anche di quelle domestiche, che spesso si annidano nei nostri dubbi, talvolta espressi con l’aria di chi dice: “A me non la si dà da bere”.
Trasmettere sì gli stessi vocaboli, ma innanzitutto lo stesso spirito profondo. Paolo non ripete le parole degli evangelisti (anche perché non sempre coevi con lui), ma l’azione e lo spirito di Gesù, ciò che fa il succo di quello che lui definisce “il mio vangelo”.
Trasmettere non è necessariamente ripetere, sebbene non rare volte il ripetere le parole di Gesù o degli Apostoli, soccorrono a confermare l’autenticità delle stessa trasmissione.
Per trasmettere è necessario prima appropriarsi (e non raramente con fatica sposata alla preghiera) di quanto si deve poi trasmettere.
È ovvio che nell’appropriarsi della verità evangelica e nel trasmettere è necessaria l’azione dello Spirito Santo di Dio. Lo stesso Spirito che agisce nel primo esprimere tale parola, nella bocca di Gesù e in ogni profezia, ed agisce in colui che riceve la parola rivelata, affinché percepisca che essa non è parola prettamente umana, ma Dio che si comunica.
07.03.18

Parola di Dio libera

Parola di Dio libera
La Parola di Dio non è incatenata (2 Tm 2, 9). Essa può (e deve) essere detta sempre, anche quando si è in prigione (come era Paolo, quando scrisse la frase sopra riportata), o quando le circostanze naturali o imposte dagli uomini, pretendono di privarci delle occasioni, in cui è facilitata la possibilità di parlare di Dio e di Gesù. Gli uomini, anche il clero (come era per S. Paolo e non per lui soltanto), non possono chiudere la bocca al profeta, se non uccidendolo, come si legge nella Bibbia.
Quando la comunità dei credenti si raduna, lo fa per ricevere la Parola e il Corpo di Cristo.
Ci sono anche almeno due modi per “sprangare” le porte del cuore nostro davanti alla Parola: tenerla lontano da noi, oppure comprimerla in noi, affinché non esca.
Il sospingerla fuori di noi, comincia dal disinteressarsene, in qualsiasi modo. Quante volte abbiamo udito una parola di Dio, che ci ha comunque incuriositi, l’abbiamo lasciata scorrere via, perché stimata poco importante! L’altro modo di sprangarci davanti alla parola di Dio, è quella di rifiutarla o di dimenticarla, perché troppo molesta per i nostri comodi.
Spesso inoltre abbiamo sprangato dentro di noi la parola di Dio, quando sentivamo dentro di noi quella “vocina” che ci avvertiva: “Non farlo, non pensarlo, perché così Dio non vuole”. O anche quando davanti a una nostra scelta, abbiamo trascurato di chiederci: “Secondo il Vangelo, che cosa devo scegliere?”. Anche trascurando il Vangelo, nelle nostre scelte, usiamo un modo, un po’ subdolo, di mantenere incatenata la Parola di dio.
03.03.18

Dio in spirito e verità

Dio in spirito e verità
Accadono circostanze, durante la vita, nelle quali constatiamo concretamente il posarsi del Vangelo nella nostra vita.
L’ho osservato, per esempio, nei miei contatti con coloro, che, ai miei tempi, si dicevano handicappati, e ora di devono designare come diversamente dotati. Durante i miei colloqui con queste persone, se accennavo a qualche dinamica psichica, li trovavo indifferenti se non lontani, appena nominavo Gesù, si accendevano improvvisamente. Infatti ai piccoli è comunicata la gioia della verità.
Quando ci capita di allontanarci, o essere allontanati da un edificio del culto, e ci è permesso di fare Eucarestia solo nel privato, questa è realizzazione della parola di Gesù: Dio non necessariamente si adora nel tempio di Gerusalemme o nel santuario del Garizzim, ma semplicemente in “spirito e verità”. Così si assapora la stessa gioia dei credenti iniziali, che si radunavano nelle case per la cena eucaristica. Il tempio serviva per la preghiera consueta, le case invece erano il luogo per l’Eucarestia.
S. Sofia di Costantinopoli è rimasto un luogo di preghiera, prima cristiano e poi musulmano; eppure a Costantinopoli si fa egualmente l’Eucarestia.
Del resto il cambio di culto all’interno di un edificio sacro, l’hanno già fatto, nel passato, quando i templi dei pagani si trasformavano in “titoli” o “stazioni” cristiani. L’ebreo profugo pregava Dio di tornare a Gerusalemme per lodare Dio. Noi lo lodiamo sempre.
26.02.18

Amare i nemici

Amare i nemici
Nel brano del Vangelo di oggi incontriamo quel piatto forte: amate i vostri nemici.
Ieri il brano indicava la profondità del nostro atteggiamento nei confronti con il prossimo: non solamente non ucciderlo, ma anche non offenderlo a parole. Un atteggiamento radicale.
Oggi ci viene indicata anche la vastità del nostro atteggiamento di aderenti alla persona di Gesù, verso il prossimo. Amate i nemici. Questo atteggiamento presuppone la situazione naturale e spontanea, che è quella di amare chi ci vuol bene, ciò che compie chiunque (pubblicani e pagani). L’atteggiamento indicato da Gesù, oltrepassa la naturalità, va oltre i confini e raggiunge l’altro: chi è nostro nemico, e frequentemente chi si fa nostro nemico, senza che noi ne provochiamo la sua inimicizia.
A prima vista, qui ci viene proposto l’impossibile: amare chi non è degno di amore (non amico: inimico). La domanda più ovvia è: “Come è possibile?”, che è la stessa domanda fiorita sulle labbra di Maria, quando l’angelo le comunicò la sua maternità, senza contributo maschile. L’angelo a Maria: “Ogni parola di Dio è efficace”. Così, se Gesù ce lo comanda (“amate”: imperativo plurale presente), le sue parole sono cariche di potenza divina. Nel comandare, lui si impegna. Allora non si realizza con le semplici forze umane (pubblicani e pagani), ma con la presenza attiva dello Spirito Santo in noi: a questa attività dobbiamo appoggiarci. Come si appoggiò Francesco di Sales: “Se un nemico mi cava un occhio, lo guarderei benevolmente con l’altro”.
24.02.18

Verità affettuosa

Verità affettuosa
È sempre bello vedere in Gesù il movimento affettivo ed emotivo del suo agire e del suo parlare. È un esempio per come possiamo (e dobbiamo) vivere il nostro rapporto d’amore con il Padre.
Sto pensando che le “leggi” di Dio, ossia le indicazioni concrete che Dio ci impartisce possono essere pronunciate e vissute in due modi: comandi o esortazioni. Il re e il duce e il legislatore comandano e minacciano. Il padre esorta, quando parla a un figlio più o meno debole.
Il comandante ordina: “Devi agire in questo modo altrimenti ti castigo”.
Il padre: “Non farti del male, comportandoti in modo disordinato. Ti prego, non farti del male!”.
Quando apprendiamo il modo di esortare di un padre buono, cambiamo perfino i versetti più crudi dei salmi ebraici, che siamo obbligati a recitare.
Sarebbe bello che l’indicazione emanata per la recita di compieta, possa essere applicata a ogni ora canonica. Per la compieta c’è un’indicazione che permette di recitare ogni giorno una compieta che più aggrada, quella che è più consona al nostro spirito, e che è utile memorizzare.
Riportare tutto in famiglia, dove il Signore Dio Onnipotente, diventa nostro Padre, quello che incontrandoci ci strizza l’occhio per indicare l’intesa: “Noi due ci comprendiamo”.
Forse abbiamo bisogno di una lettura compiuta affettuosamente, di tutte le verità cristiane espresse, giustamente, in modo dottrinale. Si tratta del semplice modo mistico di sentire la bellezza e la grandezza delle cose di Dio.
03.03.18

La vita sua è nostra

La vita sua è nostra
Soffermarci a riflettere sul nostro esistere, ci aiuta a considerare in modo nuovo molte cose.
L’esistenza, cioè l’esserci, è un bel mistero, che non dipende dall’uomo. L’uomo è incapace di farsi esistere: egli semplicemente è.
Tutto il cosmo non si è fatto esistere. L’esistente assoluto, Dio, pone l’universo nell’esistenza. Lui, esistente eternamente in sé, partecipa alla creazione la sua esistenza.
I miti dell’inizio ricordati nella Genesi, si esprimono in modo quasi indeciso, eppure significativo. Le “cose” e gli animali sono sotto la denominazione “egli disse e la cosa avvenne”. L’esistenza dell’uomo è descritta come un intervento diretto di Dio. Sembra che in quel “disse e avvenne” ci corra una distanza tra Dio e la creazione; però quando si trattò dell’esistenza dell’uomo, Dio “modellò l’uomo con la polvere del terreno, e soffiò nelle sue narici un alito di vita: così l’uomo divenne un essere vivente” (Gn 2, 7).
Come si arguisce, Dio si diede da fare per costruire l’uomo con le sue stesse mani: non distanza, ma azione diretta.
Fino a un certo punto l’uomo partecipò del resto creato (la polvere), ma poi la partecipazione arrivò direttamente da Dio: soffia il proprio respiro di vita, per rendere l’uomo partecipe della sua stessa vita: lo rese vivente, perché partecipe del respiro di Dio: respiro è vita. Vita che si trasmette, e che continua (essere vivente!). Adamo visse per la vita di Dio, trasmessa.
Gesù: io e il Padre siamo una cosa sola. Come io vivo per il Padre (vita continua compartecipe), così voi vivete per (mediante) me.
25.02.18